venerdì 26 febbraio 2010

Inventario delle foto mai nate

La prima che ricordo è la meno interessante. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare, come si suol dire, e anche nell’arte dello sbaglio c’è sempre tempo per migliorare.
Sono alla Saline di Marsala, su un molo dello Stagnone. Qualcuno fa kitesurf, andando avanti e indietro su quelle acque basse.
Lo vedo venire verso di me, in lontananza. Lo aspetto, ho tutto il tempo di prepararmi. Lui arriva, mi vede, e civettuolmente fa un salto proprio davanti a me per virare in aria. È così vicino che col 35 mm posso quasi riempire il fotogramma. A riempirsi, in realtà, e solo per un attimo, è il mirino.
Rimango infatti col dito a metà corsa sul grilletto. E, non so per quale motivo, non scatto. Mi alzo scuotendo la testa, già pentito di non averlo fatto. Cosa ci potevo perdere, uno stupido frammento di pellicola?
Guardo il surfer allontanarsi veloce, sospinto dal vento. Magari convinto, in cuor suo, di essere stato immortalato proprio mentre compiva la sua bella virata in volo.
Lisa mi guarda, mi dice aspettiamo che rifaccia il giro, aspettiamo che ritorni, ma io continuo a scuotere la testa. So che in ogni caso, anche se ritornasse davvero, la situazione non sarebbe più la stessa.
No, non fa niente. Andiamo.

Un’altra è allo stadio. Il derby sta per finire, e l’atmosfera è sempre più calda. Molti tifosi si avvicinano alla rete di protezione del campo di gioco. Io mi sposto lateralmente, in basso. Intuisco cosa accadrà e salgo su una ringhiera, per appoggiarmi alla parte alta della rete. Due tifosi infatti si arrampicano, come per scavalcare, e io per un attimo li ho lì davanti, disposti perfettamente in controluce, con la rete a farmi da linea portante in diagonale, gli altri tifosi a completare il fotogramma.
È l’ultimo scatto della pellicola, e non ne ho più con me. Tant'è che non scatto e rimango con quello che - sono sicuro - sarebbe stato uno scattone solo per un istante davanti agli occhi, filtrato da ottica e mirino. E adesso dalla memoria.
Una foto buona la porto a casa comunque. Ma potevano essere due. E quella non fatta mi mancherà sempre.
Poi tutto finisce, e faccio una banalissima e stupidissima panoramica della tribuna, foto inutile, vista e rivista mille volte. Che oltretutto, tra le tendine rotte della malandata macchina che ho in prestito e i contrasti esasperati del cross processing, poco adatti all’esposizione ballerina della fotocamera, viene pure male. Ben mi sta, così imparo, cazzone che non sono altro.

Si potrebbe pensare che col digitale, e la non dipendenza dai rulli di pellicola, sarà diverso. E si preferirà uno scatto (dieci, venti, cento...) in più piuttosto che uno non fatto. Stronzate!

Sono a Palazzo Adriano, dove è stato girato Nuovo Cinema Paradiso, per fare delle riprese a un piccolo concerto.
Un’amica mi dice se ho visto tutti quei vecchi, seduti in fila sulle sedie e appoggiati a un muro, che formano una linea sottile e monocroma (sono quasi tutti vestiti con pantaloni scuri e camicie bianche) che curva leggermente assecondando la forma irregolare della grande piazza.
Sì, li ho visti, come avrei potuto non notarli. Sono almeno un centinaio, e non esagero.
Gliel’hai fatta una foto?
Per un attimo immagino la foto che avrei voluto fare, la vedo con una precisione che neanche se l’avessi stampata 30X45 sotto gli occhi. È fatta con il massimo grandangolo, a 10 mm, la linea sottile, monocroma e leggermente curva formata dai vecchi divide il fotogramma in due parti.
Sicuramente ne avrei fatte tre versioni, una con la linea in mezzo, una con la linea sul terzo inferiore e un’altra sul terzo superiore della foto. Anche se, nella mia visione del 30X45 potenziale, istintivamente la linea è quasi in mezzo, leggermente spostata in basso. E la foto è pure, va a sapere perché, leggermente mossa. La fila dei vecchi, conseguentemente, non nitida. Forse per rendere la situazione ancora più astratta. O più semplicemente perché le foto riesco a sbagliarle anche con l'immaginazione.
No, non gliel’ho fatta, non ho avuto tempo.
Dio mio! Il tempo! Non avuto tempo! Che cazzone, che cazzone!
Mi mangio ancora le mani e le schede di memoria.

L’ultima che mi viene in mente, al momento, è una Lomo Action Sampler.
Sono in autostrada, semivuota, tra un sorpasso e l’altro rifletto sulle vite che sfioro per un attimo a 130 all’ora, protetto e isolato dall’esterno dalla carrozzeria della macchina, dai vetri chiusi e dalla radio accesa che riempie l’abitacolo con musica e parole.
Ad un tratto vedo un aereo che viaggia in direzione opposta alla mia, finalmente lo incrocio alla distanza giusta. Ci provo da un sacco a beccarne uno con la Lomo quando sono in autostrada, e ho anche un paio di scatti che non sono del tutto malaccio. Vola alla mia sinistra, come se percorresse la carreggiata opposta, e per un attimo passa davanti al sole.
Non ho la macchinetta sotto mano - mai che ci sia quando serve davvero - e, ruotando la testa per seguirne il movimento, faccio mentalmente click. Uno, due tre, quattro, sento il rumore caratteristico dei 4 scatti in sequenza dell’Action Sampler.
Durante lo scatto potenziale, faccio in tempo a chiedermi se sarebbe stato meglio scattare tenendo ferma la macchinetta, facendo quindi uscire l’aereo dal fotogramma, oppure seguendolo in panning, cercando di fermarlo al centro dell’inquadratura e lasciando all’entrata e uscita di campo del sole il compito di rendere il senso del movimento.

Penso alla migliaia di foto inutili che occupano spazio nei miei hard-disk, e che sono incapace di cancellare. Foto dall’elettroencefalogramma piatto, che solo le macchine tengono in vita, semplici sequenze di 0 e di 1 prive di significato, ma per le quali non riesco a decidermi per l’eutanasia. Non si sa mai, mi dico sempre, col dito di Damocle che incombe, immobile e minaccioso, sopra il tasto Canc. Metti che debba fare una ricerca, un “fotometraggio”, o debba scrivere uno strambo racconto intitolato Eutanasia di una foto.
Il mio amico Buk dice che le foto brutte andrebbero cancellate subito, perché c’è il rischio che inquinino quelle buone, a furia di starci vicine. Il mio amico Buk dice anche che le foto non andrebbero mai cancellate, neanche quelle che ci sembrano brutte. Dopo un anno lo sguardo può cambiare, così come i criteri estetico-espressivi e quindi di selezione.
Penso che anche se farò buone foto, in futuro, e la cosa è dubbia, queste non nate mi mancheranno sempre. Anche se deciderò di cancellare, come dice Buk, o di tenere tutto, come dice Buk.
No, ovviamente oggi niente fotina d’accompagnamento. Non ora, perlomeno. Non qui.
Ma nulla ci vieta di sbagliare da professionisti.

CLICK

martedì 16 febbraio 2010

Tra-ghetti

Faccio per scendere e lo vedo dietro il vetro. Apre la porta di comunicazione tra i due vagoni, intercetto per un attimo il suo sguardo rapido e sfuggente, quindi passa oltre sfiorandomi con lo zaino viola che trascina su una spalla.
Inizia ad aprire le porte dei vari scompartimenti, guardando nervosamente all’interno. Intuisco immediatamente perché sia lì, ma mi sforzo di non crederci. Magari sta cercando dei compagni di viaggio, chi lo sa.
Arriva all’ultimo scompartimento, e finalmente entra e si siede. Io rimango a guardarlo, proprio alla fine del corridoio, con un occhio a lui e uno alla porta. E, attraverso di essa, alle scale che portano sul ponte del traghetto.
Comincia ad entrare ed uscire dal suo scompartimento, ma io ormai non mi muovo, anche se ho un bisogno disperato di un caffè, la notte non ho dormito, sono in giro da prima delle 5 e penso alle altre dieci ore di treno che mi aspettano.
Ho un bisogno disperato di un caffè, non riesco a tenere gli occhi aperti, ma il vagone è semivuoto e non scendo, cazzo non scendo. Entro nello scompartimento e chiudo le tende che danno sul corridoio. Lo sento passare un paio di volte fuori, finché non rientra nel suo scompartimento. Sembra rinunciare. Silenzio.

Ed è lì che commetto l’errore, di presunzione. Quanto ci vorrà per arrivare su, prendere un caffè e scendere, due minuti? E lui dove può andare, se siamo in piena navigazione? E, poi, potrà mai capitare a me?
Il desiderio è troppo forte, prendo con me lo zaino con le cose più importanti e lascio il resto. Esco lentamente, cercando di non far rumore e chiudendo le tende del mio scompartimento. Sperando che il mio bluff regga qualche minuto, soltanto qualche minuto.

Salgo velocemente le scale ripide e strettissime che portano al ponte, una rampa, due, tre e sono fuori. Mi dirigo controvento all’ingresso del bar.
Che fortuna, è vuoto, penso. Ordino il caffè, e già che ci sono un cornetto confezionato, non si sa mai, nel pomeriggio potrebbe sempre venirmi fame, nonostante il bel panino al salame e formaggio che mi aspetta giù.

Prendo il caffè e gli occhi mi si sgranano come due popcorn, pop pop, di nuovo aperti. Ci voleva proprio, penso. Pago e sono di nuovo fuori, perfino a favore di vento. Mi ributto sulle scale, che mi sembrano ancora più strette e ripide della salita, risalgo sul vagone, e rientro nel mio scompartimento.
Un rapido sguardo, bene, c’è tutto. Sorrido soddisfatto, non riesco a trattenermi, ti ho fregato, coglione! Prendo il sacchetto che ho sul sedile di fronte per conservarci il cornetto, sposto le bottigliette d’acqua, il plumcake che mi ha dato Lisa… cazzo, e il panino dove l’ho messo? Era in un sacchettino a parte, ma sempre qui dentro, lo ricordo bene. Guardo e riguardo, sposto e risposto, niente, non c’è. Il panino preparato amorevolmente dalla mia mammina non c’è.

Trrr, trrr… trrr trrr…
- Pronto?
- Li’, il panino dove l’hai messo?
- Nel sacchetto con l’acqua, dentro un altro sacchettino… il profumo del salame si sentiva troppo. Risata. Poi: Perché?
- Sei sicura di averlo messo lì?
- Sì, ti dico di sì. C’era anche la mela.
- Ah, c’era pure la mela.
- Sì.
Silenzio.
- Si sono fregati il panino.
- Cosa?
Risata.
- Si sono fregati il panino.
Risata più forte.
Io rido molto meno. Ho fame. Una fame che ha avuto un’improvvisa impennata e mi ha fatto gorgogliare lo stomaco ora che so che il panino lo mangerà qualcun altro.
Esco dallo scompartimento e vado verso quello in fondo, con passo deciso.

La porta è aperta, ma la tendina è chiusa. Tutto al buio, ma lui è lì dentro, e si intravede bene. Scosto a malapena la tendina, sento forte l’odore del salame, lui non si volta, guarda dritto davanti a sé.
Pausa.
Buon appetito, scandisco mentalmente, e lo penso così forte che è come se lo avessi detto e se lui avesse sentito.
Torno indietro, perché mi viene in mente che non ho controllato il borsone. Mentre lui è ancora lì devo farlo immediatamente. Lo tiro giù in fretta, anche se non sembra minimamente toccato. Apro freneticamente le cerniere, sbaglio tasca e mi sembra che manchi qualcosa, ma in realtà c’è tutto. Perlomeno così mi sembra a caldo, può sempre sfuggirti qualcosa di cui poi noterai la mancanza soltanto quando ti servirà.
Motivo per cui ricontrollo tutto, e cerco di farlo il più velocemente e meticolosamente possibile. Niente, non manca niente. Eppure ho addosso quella strana sensazione di violazione, anche se alla fine si è preso solo panino e mela, per fame; non può nemmeno considerarsi furto, se avessi fame e non avessi soldi farei lo stesso, probabilmente.

Mi stravacco sul sedile, il sonno è definitivamente passato, e gli occhi mi vanno sul sedile di fronte. Accanto al sacchetto c’è il libro che stavo leggendo e, chissà perché, avevo lasciato in bella vista. Me lo ricordo bene, prima di scendere l’ho preso e l’ho messo lì bene in ordine accanto al sacchetto.
Il libro è Autoritratto di un reporter di Kapuściński. In copertina fa la sua bella apparizione la foto di un gruppo di ragazzi neri sorridenti. Più lo guardo più mi convinco che è quel libro ad avermi graziato, magari l’amico di colore affamato voleva fregarsi tutto, e invece si è preso solo panino e mela perché si è commosso di fronte a quella foto, o qualcosa del genere, o che so io.
O magari no, ha preso solo quello perché non è un ladro, e basta, cerca solo come rimediare qualcosa da mangiare e nella sua vita ha collezionato troppi rifiuti per chiedere. Tra l’altro, così facendo, mi ha pure privato del piacere di lavarmi un po’ la coscienza a basso costo e di sentirmi, per un momento, buono, regalandoglielo, quel maledetto panino.
Ma non lo saprò mai. Quando mi alzo per tornare verso di lui, scopro che non è più sul vagone. Ha approfittato del tempo che ho perso in inutili riflessioni per dileguarsi.

Torno al mio posto e, preventivamente, mangio il plumcake e bevo. A meno che non mangino vomito, questo non me lo fregano più, penso.
Mentre siamo fermi a Villa sento uno scampanellio in corridoio. Compro a caro prezzo un infimo panino (in realtà è un cornetto dolce) con prosciutto e formaggio e un succo di frutta, li ripongo per un attimo dentro al sacchetto, ma ricordando la teoria appena elaborata, decido di mangiarli subito.

Mentre addento quel cornetto freddo e dolciastro, noto un cartello pubblicitario fuori dal finestrino, lo collego al libro rimasto sul sedile di fronte – la fugace apparizione dell’“autorità” è puro culo –, afferro la macchina e decido di sintetizzare l’esperienza così:


lunedì 15 febbraio 2010

Avatar: E=3D²


Vedere Avatar equivale pressappoco a prendere una sbornia. L’eccitazione della sera prima, accompagnata da occhi pesanti e sensazione di vuoto alla testa, si trasforma in un terribile mal di testa il mattino dopo.

Alla fine sto benedetto 3D, per quanto eccitante anche per l’effetto novità (penso all’Arrivo del treno dei Fratelli Lumière, a agli spettatori che si alzano, come vuole la leggenda), non è altro che un passo tecnico in avanti come lo è stato il passaggio dal muto al sonoro e dal bianco e nero al colore. Sempre che trovino il modo di rendere il tutto meno faticoso, ovviamente.

Ci stanno lavorando, ne sono certo. Così come sono certo che la cosa non è semplice, o l’avrebbero già fatta, visti gli interessi in gioco. Il 3D è l’unico modo, attualmente, per cercare di riportare la gente al cinema, facendole pagare allegramente un biglietto, oltretutto. Fatto che, in tempi di full hd casalingo, home teather, e download selvaggio, non è per niente scontato. Soprattutto pagare.
Un tentativo affine all’invenzione del cinemascope, del panavision, insomma dei formati panoramici, per tentare di arginare la concorrenza della televisione, offrendo qualcosa di non riproducibile al di fuori del cinema.
Il bombardamento pubblicitario massiccio e continuo ne è la testimonianza. Così come il fatto che le sale 3D comincino ad essere più diffuse, anche in luoghi dove non pareva così scontato ci fossero.

Curioso come si stia cercando di farlo con una storia di impianto estremamente classico, seppure ibridata con soluzioni narrative e un immaginario visivo che ha molti debiti nei confronti del mondo dei videogiochi e della loro interattività.
Ci si arrampica per montagne volanti, e quando sembra di non poter più andare avanti, si aspetta che il movimento di “zolle” vicine finisca per mettere a portata di salto la liana giusta per passare al livello successivo; e si domina il “mostro” dalle sembianze di uno pterodattilo con una serie di tecniche estremamente familiari per chi ha una pur minima manualità con joystick e affini.

In fondo Avatar parla di noi spettatori, desiderosi di proiettarci dentro lo schermo immedesimandoci totalmente nel nostro beniamino di turno. Cosa che finora abbiamo tranquillamente fatto senza l’ausilio di bioporte, di code “trombatutto” e di capsule di controllo varie. E che prima facevamo senza il colore, senza il sonoro, e prima ancora senza immagini in movimento. Ma che ora devono convincerci a fare indossando un paio di strani occhialini.

Per sottolineare l’importanza dell’esperienza, l’”Io ti vedo” seppellisce definitivamente l’”Io ti amo”, così come a noi non resta che sprofondare tra le braccia accoglienti della Nostra Signora Madre Virtuale, per rinascere in un nuovo corpo e “vedere” con occhi nuovi.
Il mondo di Pandora è stato aperto e i nostri avatar stanno uscendo dallo schermo. O siamo noi che stiamo definitivamente entrando dentro il nuovo acquario.
Perlomeno fino ai titoli di coda.

mercoledì 10 febbraio 2010

Kiss


"La Città* è un tempio dove pilastri viventi
lasciano talvolta sfuggire confuse parole;
l'uomo vi passa lungo foreste di simboli,
che lo fissano con sguardi familiari."

C. Baudelaire, Corrispondenze
*Natura nell'originale

La città ci lusinga,
ci manda messaggi che sono soltanto nella nostra testa.
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