venerdì 26 marzo 2010

5 modi per liberarsi definitivamente dai Testimoni di Geova


Antefatto:
TRRR TRRR

TRRR TRRR
“Chi è?”
“Mi chiamo Blablabla, stiamo distribuendo un volantino, ne possiamo parlare?”
“No. In questo momento ho da fare”.
“Allora possiamo metterlo nella cassetta?”
“Lo metta dove vuole”.

Dialogo n°1
TRRR TRRR
“Chi è?”
“Mi chiamo Blablabla, abbiamo un volantino, ne possiamo parlare?”
“Ma siete testimoni di Geova?”
“Sì”.
“Ma il Regno dei Cieli non è destinato solo a 144.000?”
“…”
“Allora?”
“Sì”.
“E allora perché diavolo cercate ancora altre persone da convertire? Non siete già in troppi?”
“…”
“Quanti sarete? 5 o 6 milioni nel mondo? E il Regno dei Cieli è per 144.000… Dovreste cominciare a fare il contrario. È tempo di buttare fuori qualcuno, piuttosto”.
“…”
“Fossi in lei comincerei a preoccuparmi. Lei, per esempio, si salverà?”
“…”
“Le do un consiglio aggratis… cominci a pensare a come salvarsi il culo. Buttate fuori un po’ di gente”.

Dialogo n°2
TRRR TRRR
“Chi è?”
“Testimoni di Geova”
“Oh, che piacere!”
“Dice davvero?”
“Certo!”
“Sono contenta, finalmente una persona gentile”.
“Sono contento perché il mondo doveva finire nel 1975, secondo le vostre ultime previsioni”.
“…”
“E invece siamo ancora qua. Non è contenta anche lei?”

Dialogo n°3
TRRR TRRR
“Chi è?”
“Salve, possiamo parlare di Dio?”
“No”.
“Come no?”
“No. Siamo in due a parlare, giusto? Avrò anch’io voce in capitolo sulla scelta dell’argomento?”
“Ma…”
“Per esempio… possiamo parlare di Jonathan Coe?”
“Gionata chi? È un profeta?”
“No, uno scrittore”
“…”
“Signorina, allora, ne vogliamo parlare?”
“…”
“Signorina…”
“…”
“Signorina… Signorina...”

Dialogo n°4
TRRR TRRR
“Chi è?”
“Testimoni di Geova”
“Che c’è?”
“Siamo qui per la sua salvezza”.
“La mia salvezza? Ma voi lo sapete che io sono salvo grazie a una trasfusione di sangue?”
“…”
“Fosse dipeso da voi, a quest’ora sarei morto!”

Dialogo n°5
TRRR TRRR
“Chi è?”
“Testimoni di Geova”
“Ma siete sicuri?”
“… Sì”.
“Ma sicuri sicuri?”
“Sì”.
“Ma il mondo non è finito nel ‘75?”
“…”
“Voi non esistete”.
“…”
“Noi non esistiamo. Shhhhh”.

lunedì 22 marzo 2010

Agenzia Patrimoniale

Passeggio fra gli scaffali della grande libreria della stazione, passo in rassegna dei libri e li sfoglio distrattamente mentre aspetto il treno.
All’improvviso:
- Pronto?
A rispondere è un uomo sui settanta, o sui sessanta portati male, vestito in maniera trasandata e mal assemblata, barba brizzolata, radi capelli arruffati. Ha le lenti da sole alzate sugli occhiali da vista.

- Quanti anni ha? 62? Sei, due?
- ...
- Si vuole sposare?
- ... 
- Vuole fare ma-tri-mo-nio?
- ... 
- 70. Ha 70 anni. Autosufficiente, guida la macchina.
- ... 
- Ricco. Pausa, poi sottolinea: ricco.
Due donne accanto a me si guardano con complicità, anche se non si conoscono, e sorridono.
L’uomo attraversa il settore Architettura, sempre incurante che altri possano sentire la sua telefonata.
- Le interessa? Le interessa? ripete con la sua cadenza monotona.
- ... 
- Deve mandarmi una foto. No, lei! Deve mandarmi una foto!
- ... 
- Sa mandare una foto per telefono? Sa mandare una foto per telefono? Una foto per telefono la sa mandare?
- ... 
- Allora se la faccia fare. Si faccia aiutare e la mandi.
Click.

Senza nemmeno volerlo mi scopro a seguirlo. Me ne accorgo perché mi ritrovo davanti libri come Forme di polistirolo, L’arte del découpage e Mosaico facile.
Lui sta sfogliando un libro d’arte di grande formato su Giorgione. In mano tiene stretto un libro dalla copertina nera, con una donna nuda. Si intitola Hard.
Dopo essere passato a La vera storia di Lucio Battisti, si dirige verso la cassa. Dribblo in blocco il settore Giardinaggio, e gli sono dietro.

- I libri di poesia?
- Accanto a Critica letteraria. Lo vede? Critica letteraria. Accanto.
L’uomo va verso il punto indicato dalla cassiera, e io lo seguo. Lo inquadro con discrezione, tenendo fra me e lui un paio di scaffali. Le mie carrellate laterali sfocano il primo piano coi libri e tengono a fuoco lui e le sue lenti alzate.
Ogni volta che si gira, o semplicemente accenna a farlo, mi trova con un libro in mano, o mentre mi accingo a prenderlo con naturalezza da uno scaffale, o con la testa piegata, intento a leggere i titoli sul dorso. Le orecchie bene aperte.
Sorrido internamente, mentre afferro un libro a caso. Sto giocando al piccolo detective, e mi riesce pure bene.

Intanto l’uomo lascia la borsa su uno scaffale basso, e prosegue il suo giro.
Dà un’occhiata a Vita di un uomo di Ungaretti e a un volume delle Opere di Wislawa Szymborska.
Tutt’a un tratto l’altoparlante comincia a vomitare: il proprietario dello zaino lasciato accanto alla cassa del piano terra è pregato di ritirarlo immediatamente.
Gli occhi mi vanno istintivamente alla borsa lasciata dall’uomo.
Beh, la voce diceva del piano terra, io sto al piano interrato. Ma dove sarà la cassa? penso guardando il soffitto e la cassa del mio piano per valutare gli eventuali effetti di un’esplosione.
Di nuovo l’annuncio: il proprietario dello zaino lasciato accanto alla cassa del piano terra è pregato di ritirarlo im-me-dia-ta-men-te.
Stavolta gli occhi mi vanno ai libri che ho davanti. Vedo un titolo su Una bomber e uno su La strage di Bologna con prefazione dell’immancabile Carlo Lucarelli. Andiamo bene!
Mentre l’uomo recupera la sua borsa e si sposta verso la cassa, poso prontamente La strage di Piazza Fontana, che nel frattempo avevo preso in mano, e lo seguo.

- Glielo incarto? fa la cassiera, forse vedendo la donna nuda in copertina.
- No! risponde seccamente l’uomo, quasi avvertendo in quella richiesta un’implicita offesa.
Mentre la cassiera lavora col libro, l’uomo nota dei piccoli bloc-notes con dei gattini in copertina. Kitty, si chiamano.
- Quant’è questo, 50? chiede prendendone uno.
- 50.
Paga ed esce.
Ormai è uscito, sono solo, e niente potrà più salvarmi dall’esplosione potenziale imminente.
Vorrei seguirlo, in un film lo avrei seguito, ma ho un libro in mano, unica copia presente in libreria, che non riuscirei a pagare in tempo. Lo avrei abbandonato sullo scaffale e sarei andato fuori dietro all’uomo, in un film.
I miei pensieri sono interrotti dall’altoparlante, ancora una volta: il proprietario dello zaino lasciato accanto alla cassa del piano terra è pregato di ritirarlo immediatamente.
Non ho il tempo di agitarmi, Già fatto, risponde un’altra voce metallica.
 
Vado alla cassa, faccio la fila, pago e mi avvio verso l’uscita, pronto a rituffarmi nella città e nell’assurdo e grottesco flusso di collegamenti con cui ci bombarda di continuo.
Esco. Non prima di avere appuntato questa storia.


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martedì 9 marzo 2010

Sogni in 35mm #3
















"Scrivere - diceva Marguerite Duras - è anche non parlare.
È tacere. È urlare senza emettere suoni."
E. Vila-Matas, Bartleby e compagnia

È un’alba stupenda, fiabesca, da sogno. La vedo dalla mia finestra. Aspiro a pieni polmoni l’aria piacevolmente fresca e pulita. Ho una viva sensazione di pace e tranquillità.
Sto talmente bene che non sento la solita, continua e ossessiva necessità di realizzare i miei sogni e le mie aspirazioni, di riuscire a mettere ordine nella mia vita.
Non parlo ormai da nove giorni.
Dicono che nei sogni il mare rappresenti la nostra anima, la nostra interiorità, il nostro inconscio.
Il mare si trova in luogo familiare. Un luogo in cui so che il mare non c’è. Un luogo che di solito è coperto di grano. Come se la mia anima fosse ormai parte integrante di quei posti, come se vi fosse indissolubilmente legata. Come se ne avesse bisogno per esistere.
La luce del sole esce da alcuni squarci fra le nubi che sovrastano i monti innevati sullo sfondo. Inizia a danzare sulle onde leggere del mare, emanando diffusi e inafferrabili riflessi.
Com’è bella la mia anima. In superficie.
Sotto c’è tutta l’oscurità profonda e inconoscibile di quella massa d’acqua enorme, plumbea.

Salgo su un autobus urbano che percorre la campagna. C’è sempre il mare, sullo sfondo. Protetto labilmente dalle sagome ad ombrello di pini marittimi. Guardo di sfuggita un uomo avvinghiato a un’asta di sostegno per i passeggeri. Mi assomiglia, potrei essere io. Forse sono proprio io. Mi fa immediatamente antipatia. Il ritmo è lento. Il mio sguardo indugia a lungo sui particolari. A volte si ferma e torna indietro, per poi riposarsi su cose ormai viste. Realizzo di essere dentro un film francese. Non sono lenti i film francesi. Sono ovattati, estraniati, indugianti. Consapevoli di essere dei film. Consapevoli di essere nati dallo sguardo indagatore di una telecamera.
Rivedo l’uomo. Cazzo se mi assomiglia. È sempre avvinghiato al suo appiglio.
Forse sono davvero io. Forse il mio punto di vista è quello della telecamera che mi osserva, quello della telecamera che ha girato un film fatto bene. Un film che ci mostra noi stessi.

Sono arrivato a casa mia. Chiamo i miei, ma non mi risponde nessuno. Devono essere giù. Scendo per le scale, levitando leggermente.
C’è un cane, in fondo. Particolare stonato in casa mia. Troppo stonato.
Prevedo che tra poco capirò di essere in un sogno.
Pensiero piuttosto singolare. Che mi fa capire di aver sempre saputo, in realtà, di essere in un sogno.
Arrivo giù. Vedo la luce filtrare da sotto una porta chiusa. I miei sono lì. Senza rendermene conto mi ritrovo all’interno della stanza. Iniziamo a litigare per motivi assolutamente futili, tanto che non li conosco nemmeno.
Mi sento accusato ingiustamente. E con una reazione comunque eccessiva. Spropositata.
Mi sento come in America di Kafka. Come Karl Rossmann di fronte all’eccessiva punizione dello zio.
Dimentico di essere in un sogno.

È di nuovo l’alba.
Rivedo il mare, vedo di nuovo la luce del sole fare capolino tra le nuvole. Rivedo i monti innevati sullo sfondo.
La stessa sensazione di serenità e di pace. La stessa avvolgente sensazione di stare osservando qualcosa di bello e di armonioso.
Ma i bei sogni danno solo un’effimera serenità a chi, del sogno, è attore, spettatore ed involontario autore. Una serenità destinata a svanire al momento del risveglio, sostituita da un acuto e malinconico senso di abbandono forzato. Dalla penetrante consapevolezza di aver perso qualcosa che si era conquistato a fatica.
Penso che sia estremamente noioso leggere queste cose. Penso che mi incazzerei a morte nel leggere qualcosa del genere. È un sogno. E i bei sogni non interessano a nessuno.
Occorrono incubi se si vuole scrivere.



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sabato 6 marzo 2010

SuperMaxiE(r)ro(r)e

Lo guardavo sempre Ralph SuperMaxiEroe.
Lo guardavo sempre anche se mi faceva incazzare. Come altri telefilm e cartoni, del resto.
E sempre erano come qualcosa di inevitabile. Il telefilm o il cartone andava guardato, anche se non piaceva, quasi fosse un rituale, un succedaneo di una sorta di messa, un catechismo pagano preparatorio a un credo consumistico ricco di facili promesse. Non tanto a buon mercato, a dire il vero.
Davano quel dato telefilm, a quella data ora. E quel dato telefilm, a quella data ora, andava guardato. Se ci fosse qualcosa di precocemente masochistico, in questo, o un’altrettanto precoce tendenza a vivere in un altrove qualsiasi, purché non fosse la realtà, non lo so.

In tutta onestà, Ralph non era esattamente un serial che non apprezzavo. Tutt’altro. Intanto non vedevo l'ora di leggere "Frank Lupo" sui titoli di testa, perché ipotizzavo vagamente fosse un mio compaesano. Ma soprattutto mi entusiasmava talmente tanto che il protagonista potesse volare, che mi faceva incazzare proprio il fatto che non sapesse volare bene.
Sarà che già allora mi piacevano le cose che funzionano. La storia del manuale perso o intraducibile, ora non ricordo bene, non mi convinceva troppo. Cazzo, fai un telefilm, organizzi tutto, lo giri, e poi non mi fai volare l’eroe? Il Supermaxieroe? The Greatest American Hero? A vederla oggi, la sentivo come una presa per il culo intollerabile, credo. Non ritenevo ammissibile che nel mio mondo alternativo, nel mio altrove, le cose non andassero per il verso giusto. Ci bastavo già io, nel mondo reale, a procurarmi escoriazioni varie lanciandomi dai mobili della cucina col vestito di Superman o dell’Uomo Ragno (negli anni 80 Spiderman non lo conoscevamo) che indossavo spesso, tutto l’anno, senza bisogno di aspettare Carnevale.
Cazzo Ralph, vola bene. Fregatene di quello stramaledittissimo manuale e vola! Impara ad atterrare. Non cadere a terra in modo vergognosamente simile a come cado a terra io, col mantello di Superman che mi si avvolge e attorciglia sulla faccia. Solo che io ho 4 o 5 anni. Non tu, Ralph, non lì. Non in quell’altrove contenuto in quella scatoletta, in quell’acquario con dentro immagini che si muovono, al posto dei pesci.
A dir la verità, ed esagerazioni ruffiane a parte, atterravo spesso sui due piedi.  Cadevo in piedi, sì, ma non potevo certo dire di aver davvero volato. Ralph volava, in maniera altalenante, ovvio, ma volava. Io atterravo. C’era qualcosa che non mi quadrava. Non riuscivo a vedere un mondo dove fosse tutto, simultaneamente, possibile. Pedalavo a vuoto, insomma. In folle.
















Più o meno la stessa frustrazione che avrei provato qualche anno dopo in alcuni sogni ricorrenti, nei quali non riuscivo a fare quello che volevo, pur essendo del tutto consapevole di essere in un sogno, e anzi desideroso che tutto si svolgesse esattamente come desideravo proprio per quello.
Ne ricordo uno in particolare, scendevo con una bicicletta da una discesa molto ripida che conoscevo bene, e dovevo svoltare a U per imboccare la strada principale in senso opposto. Nelle mie intenzioni dovevo farlo a tutta velocità, senza frenare; tanto ero in un sogno.
Ma in realtà finivo tutte le volte per entrare in una specie di loop rallentato e inesorabile in cui, vedendomi dall’esterno, mi riportavo in cima alla discesa e riprovavo a fare quel movimento. Senza mai riuscirci. Minchia, com’è che non ce la faccio, è il mio sogno! Forse proprio perché il sogno aveva le sue regole, e io non ne ero il signore assoluto. Dovevo accettarle e adattarmi.

La vita ha poi avuto modo di mostrarmi che le cose spesso, semplicemente, e non sempre per colpa nostra, non funzionano. E di capire perché quel manuale non ci fosse, e quanto geniale e necessario fosse quell'escamotage.
Lo capisco ora che non voglio più trovare soltanto un altrove, dentro gli acquari.
Lo capisco ora che dentro agli acquari voglio vedere chi siamo.
Lo capisco ora che non mi vesto più da Superman o da Uomo Ragno.
Ora che indosso un'armatura. Ma questa è un’altra storia, che spero di raccontare presto. In altri modi.
Per il momento, Believe it or not I’m walking on air...


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venerdì 5 marzo 2010

Sogni in 35 mm #2

Ognuno sogna i sogni che si merita.
(Gesualdo Bufalino, Il malpensante)

Ho fatto sogni violenti, questa notte.
Evidentemente, essendo costretto al silenzio, l’irruenza – alimentata ma allo stesso tempo sopita a forza da questa condizione – ha cercato altre valvole di sfogo.
Non parlo ormai da cinque giorni.

Sono tornato sui banchi di scuola. È il primo giorno dopo le vacanze estive, ma la professoressa di matematica già interroga. La lotteria truccata del suo dito sceglie due miei compagni. Sospiro di sollievo. Non ho studiato niente. Ma pensandoci bene, che cazzo avrei dovuto studiare, se è il primo giorno di scuola? Tuttavia, guardando per scrupolo il mio quadernone, lo trovo pieno di appunti. Me la faccio sotto. Sono al primo banco, la professoressa, predatrice consumata posta dalla crudele evoluzione in un gradino molto alto della scala alimentare, annusa la mia paura, percepisce la mia adrenalina. Mi lancia un’occhiata sfuggente ma molto significativa, che per un po’ mi si fissa nella mente in una specie di loop al rallentatore.
Intanto l’interrogazione dei miei compagni va avanti, il tempo passa, comincio a pensare di averla scampata. Tanto che accetto l’invito del mio compagno di banco a copiare gli esercizi per l’ora successiva, va a sapere perché, sempre di matematica (a ripensarci, la prof è di matematica, ma gli appunti che ho guardato sono di storia, o di filosofia). Accetto volentieri, e faccio per girarmi a prendere il quaderno. La predatrice mi intercetta al volo.
«Allora, vorrei sentire… il Signor F.».
Minchia, lo sapevo lo sapevo.
Il sangue mi va agli occhi. Mi lancio contro la professoressa gridando come un ossesso.
Nero.



















Ora sono in un autogrill. Non so il perché, ma mi comporto come una specie di bulletto da film americano. Piccoli dispetti, niente più.
Dopo alcuni rocamboleschi inseguimenti con il personale del locale, mi ritrovo braccato dietro il bancone. Si avvicina una specie di vigilante che, ridacchiando e pregustando sadicamente il divertimento, brandisce una spada contro di me. Fa finta di affondare alcuni colpi. Ridacchia ancora.
Io lo supplico. Lo prego di non uccidermi. Lui ridacchia e brandisce la sua arma. Cerca di infilzarmi. Lo scongiuro singhiozzando e cerco, per quanto possibile, di allontanarla da me. Ma lui torna sempre alla posizione di partenza. Ridacchiando. Vuole proprio farmi fuori.
Ed è allora che approfitto del suo divertimento e della sua distrazione, per afferrare la spada, che nel frattempo si è trasformata in un incrocio tra un’ascia, una roncola, una falce, una zappa e un attrezzo per la mattanza (è tutte queste cose insieme!), con più decisione. Mi alzo di scatto e inizio ad affondare l’arma direttamente nel suo cuore. Uno, due, tre, quattro colpi ben assestati.
Il primo colpo mi ha fatto un po’ d’impressione, nonostante l’istinto di autodifesa e di sopravvivenza guidassero la mia mano. Il secondo già un po’ meno, è arrivato per inerzia. Il terzo e il quarto per la certezza di uccidere quel bastardo.
Mi si para davanti un altro deficiente, gli riservo un trattamento simile. Meno appassionato, ma più meticoloso. La mia mano è sempre più ferma e meno esitante. Uno, due, tre, quattro.
Ci sto prendendo decisamente la mano, non mi sono sporcato neanche.
Ci sto prendendo gusto, anche. La musica mi è sempre piaciuta, ma non pensavo di avere un talento innato per le carneficine in quattro quarti.





















Sono fuori adesso. Qualcuno/a mi sta inseguendo. Siamo usciti entrambi dalla porta di una casa oscura. Io ho un certo margine di vantaggio. Svolto l’angolo, corro per un po’ e, valutando rapidamente la situazione, decido di nascondermi e poi tornare indietro, proprio dentro la casa da cui siamo usciti. Non verrà mai a cercarmi là dentro.
Mi nascondo goffamente dietro un’auto parcheggiata accanto al marciapiede. Mentre il mio inseguitore avanza verso di me, inizio a girare attorno all’auto. Mi ritrovo sulla strada, che è a senso unico. Le auto mi sfiorano viaggiando controsenso. Non riesco a nascondermi bene. È una cosa che faccio con l’atteggiamento di uno che deve fare qualcosa perché ci è obbligato, senza passione – nonostante sia inseguito – e senza voglia di farla bene. Una cosa fatta solo perché va fatta, così, tanto per fare, e basta.
L’inseguitore passa sul marciapiede, io mi abbasso un po’ di più, ma senza sforzarmi eccessivamente. Può vedermi con molta facilità. Io lo so, ma non faccio nulla. Lui non mi vede, o fa finta, e passa oltre. Facilitato dalla posizione da centometrista alla partenza, mi lancio di scatto verso la casa. Penso che sarebbe ridicolo vedere un artificio narrativo così stupido e banale in un film.
Mi sveglio. Pensando che dovrei evitare errori così grossolani, nei miei sogni.


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mercoledì 3 marzo 2010

Sogni in 35 mm #1

 "Mi sveglio, talvolta, e per un minuto non so chi sono.
Sarà così, la morte? Rincorrere tutta la notte un se stesso che fugge,
cercandosi dentro, senza trovarlo, un nome dimenticato?"

"La morte naturale non esiste: ogni morte è un assassinio.
E se non si urla, vuol dire che si acconsente."

(Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore)

Non parlo ormai da 99 ore. Anche se tecnicamente non è così. Forse perché l’istinto di parlare, ormai più che acquisito, è troppo forte.
Stanotte, infatti, mi sono svegliato gridando. O meglio, mia sorella mi ha riferito solo di qualche mugolio, ma a me è sembrato di aver gridato a squarciagola.
E ricordo il perché.
Stavo sognando. Come in 2001: odissea nello spazio, dopo una serie di immagini confuse e psichedeliche, ho visto me stesso vecchio, con addosso una tuta da astronauta, che mi si avvicinava in un modo che mi è parso minaccioso.
Sono proprio un soggetto pericoloso. O forse, chissà, era spaventato anche lui.
Mi sono alzato di soprassalto, a mezzo letto. La situazione era insostenibile. La conoscenza porta con sé un notevole margine di male e sofferenza. Di riflesso, ho cercato l’interruttore della lampada, dopo qualche goffo e assonnato tentativo ho acceso la luce. Mi sono guardato attorno, sicuro che non ci fosse nulla da temere, ma molto sospettoso e guardingo. Mi sono maledetto per aver parlato. Devo stare attento alle corde vocali, cazzo. Ho spento la luce a malincuore, mi sono girato dall’altra parte, e ho ripreso il mio sogno.
Mi ritrovo quasi subito, mio malgrado, su un aereo pronto al decollo. Un normale aereo di linea, solo molto più largo in avanti. Largo da poter contenere un piccolo schermo cinematografico.
Non ho il tempo di rendermi conto della situazione che stiamo già decollando. Mi affretto a cercare un posto su cui sedermi, ma le file di seggiolini, per numero e forma, sono quelle di un cinema piuttosto che quelle di un aereo, comunque presenti in ordine sparso, e non riesco a trovarne una adatta. I seggiolini da aereo sono già tutti occupati, uno, quello accanto al quale mi siedo, dalla mia ragazza. Incinta. Mi assicuro rapidamente che stia bene. L’aereo si muove, non mi resta che buttarmi alla meno peggio su un seggiolino da cinema.
Nel mentre, sulla parete di fronte a noi, che è uno schermo cinematografico, trasmettono le immagini del mancato disastro aereo che, in precedenza, ha visto tutti i passeggeri dell’attuale volo protagonisti.
Per tranquillizzarci, dicono.
















Nel controllato panico generale, che sta coinvolgendo anche me, sento, pur essendo quasi immobilizzato e predestinato, di dover fare qualcosa. E, d’improvviso, mi giro a guardare fuori dal finestrino. Notando, così, che la rincorsa per il decollo sta avvenendo in maniera normale.
Nel controllato ma diffuso panico, mentre l’aereo si stacca da terra, io mi tranquillizzo.
Penso alla potenza della persuasione e, soprattutto, del condizionamento.
È stato sufficiente proiettare qualche immagine catastrofica su un aereo in partenza, per scatenare la paura. Mi è bastato guardare la situazione reale, per calmarmi.
















Ma è solo un attimo. L’aereo, infatti, appena staccatosi da terra, compie un’improvvisa e brusca impennata verso l’alto, che giudico immediatamente eccessiva. Le cinture, che non ricordavo di avere attaccato, visto che mi ero seduto sulla poltroncina del cinema, fanno il loro dovere. Infatti l’aereo, che riesco a vedere anche dall’esterno, da sotto, decolla in verticale. In poche frazioni di secondo ci ritroviamo nello spazio, abbiamo sfiorato per un pelo una cintura di asteroidi marroni circondati da un alone blu, non minacciosa ma di certo pericolosa. Più in là si intravede un non meglio definito pianeta. Mi sento all’interno della sigla di Star Trek. The next generation, nel momento in cui la voce fuori campo dice: «Spazio. Ultima frontiera. Questi sono i viaggi… eccetera eccetera».
I piloti sembrano stupiti quanto noi di quello che è successo. Poi si guardano e si danno il cinque.
Io sono indeciso tra il congratularmi con loro per la riuscita dell’impresa fuori programma e il bastonarli sonoramente proprio per il fuori programma.
Non so cosa pensare.
A togliermi dall’imbarazzo ci pensa il sogno stesso. D’improvviso mi ritrovo a terra, in un luogo familiare e nello stesso tempo alieno.
Come un condottiero, sono alla guida dei passeggeri che stanno per assoggettarsi ad un nemico che ci viene contro puntando una pistola. I passeggeri si spaventano, stanno per disperdersi, io inizio ad incitarli, a gridare di stare tutti uniti. E in quel momento esatto il nemico, che non conosco pur avendo una faccia familiare, stende il braccio e si accinge a sparare. La folla che ho dietro tende ad allargarsi e il mio primo istinto è di fare lo stesso, anche se so già che non lo farò. Grido ancora di stare uniti, che è l’unico modo che abbiamo di sopravvivere, di vincere. Dopodiché mi butto tra la pistola e la folla. Mentre mi butto penso di evitare le pallottole, ma so che è inevitabile prenderle se voglio impedire che finiscano sugli altri. E infatti me le prendo. Tutte.
Cado a terra, facendo mentalmente un rapido check-up del mio corpo. Nel tronco ho varie pallottole, ma la mia attenzione viene catalizzata immediatamente da quella che ho tra il naso e l’occhio sinistro. Cazzo, penso, questo è un colpo mortale. Ora non mi resta che agonizzare per un po’ e poi morirò. Cazzo, ma intanto sto bene, non provo alcun dolore, solo un leggero fastidio tra il naso e l’occhio sinistro, ah già, lì c’è la pallottola. Come sarà quest’agonia, ormai dovrei essere già agonizzante, forse già lo sono e non me ne rendo conto. Ho il viso riverso sul ciglio in pietra della strada, sembra il ciglio della strada che percorrevo quando tornavo a casa dalla scuola elementare. Il mio nemico si china su di me per controllarmi. Mi guarda distrattamente, ma non mi tocca. Cazzo, dovrei essere agonizzante e dovrei esser sul punto di morire, cazzo, fra un po’ dovrei morire.
Sto nell’attesa di questa morte imminente.
Aspetto, aspetto, aspetto.
Non muoio.


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lunedì 1 marzo 2010

Multifilter

Guardare il mondo attraverso i vetri è come guardare in un acquario. O in una sfera di cristallo.
A saperlo leggere, il curioso gioco di trasparenze e riflessi dice più di quanto possa sembrare a un primo sguardo superficiale. O siamo noi a volerlo interpretare a tutti i costi, a volerci vedere corrispondenze e simboli che la nostra cultura ci ha instillato in vari modi.
Tutto dipende dai filtri con cui guardiamo: filtri culturali, che accendono la nostra attenzione e immaginazione; filtri tecnici, nel caso della fotografia (la scelta di un determinato obiettivo, della porzione di spazio da inquadrare, del punto da mettere a fuoco…); e, conseguentemente, scelta più o meno istintiva dell’attimo in cui fare click.
Quella che era una semplice vetrina, fino a poco prima, con la sua bella pubblicità in bianco e nero, ha finito per mostrarmi, a furia di guardarci dentro, il doppio sogno di una donna di mezza età, la fama e il successo, da una parte, una famiglia, un bambino, dall’altra.
Quando ho tolto l’occhio dal mirino e mi sono girato ho visto soltanto una donna trasandata, agghindata alla bell’e meglio per la passeggiata domenicale, che, in quella mattina d’inverno fredda ma soleggiata, aspirava nervosamente da una sigaretta. Sola. Era scomparso tutto, attorno a lei il vuoto, i suoi pensieri nascosti dal fumo.
Dite quello che volete, ditemi che sono pazzo, ma secondo me questo filtro funziona.


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