martedì 9 marzo 2010

Sogni in 35mm #3
















"Scrivere - diceva Marguerite Duras - è anche non parlare.
È tacere. È urlare senza emettere suoni."
E. Vila-Matas, Bartleby e compagnia

È un’alba stupenda, fiabesca, da sogno. La vedo dalla mia finestra. Aspiro a pieni polmoni l’aria piacevolmente fresca e pulita. Ho una viva sensazione di pace e tranquillità.
Sto talmente bene che non sento la solita, continua e ossessiva necessità di realizzare i miei sogni e le mie aspirazioni, di riuscire a mettere ordine nella mia vita.
Non parlo ormai da nove giorni.
Dicono che nei sogni il mare rappresenti la nostra anima, la nostra interiorità, il nostro inconscio.
Il mare si trova in luogo familiare. Un luogo in cui so che il mare non c’è. Un luogo che di solito è coperto di grano. Come se la mia anima fosse ormai parte integrante di quei posti, come se vi fosse indissolubilmente legata. Come se ne avesse bisogno per esistere.
La luce del sole esce da alcuni squarci fra le nubi che sovrastano i monti innevati sullo sfondo. Inizia a danzare sulle onde leggere del mare, emanando diffusi e inafferrabili riflessi.
Com’è bella la mia anima. In superficie.
Sotto c’è tutta l’oscurità profonda e inconoscibile di quella massa d’acqua enorme, plumbea.

Salgo su un autobus urbano che percorre la campagna. C’è sempre il mare, sullo sfondo. Protetto labilmente dalle sagome ad ombrello di pini marittimi. Guardo di sfuggita un uomo avvinghiato a un’asta di sostegno per i passeggeri. Mi assomiglia, potrei essere io. Forse sono proprio io. Mi fa immediatamente antipatia. Il ritmo è lento. Il mio sguardo indugia a lungo sui particolari. A volte si ferma e torna indietro, per poi riposarsi su cose ormai viste. Realizzo di essere dentro un film francese. Non sono lenti i film francesi. Sono ovattati, estraniati, indugianti. Consapevoli di essere dei film. Consapevoli di essere nati dallo sguardo indagatore di una telecamera.
Rivedo l’uomo. Cazzo se mi assomiglia. È sempre avvinghiato al suo appiglio.
Forse sono davvero io. Forse il mio punto di vista è quello della telecamera che mi osserva, quello della telecamera che ha girato un film fatto bene. Un film che ci mostra noi stessi.

Sono arrivato a casa mia. Chiamo i miei, ma non mi risponde nessuno. Devono essere giù. Scendo per le scale, levitando leggermente.
C’è un cane, in fondo. Particolare stonato in casa mia. Troppo stonato.
Prevedo che tra poco capirò di essere in un sogno.
Pensiero piuttosto singolare. Che mi fa capire di aver sempre saputo, in realtà, di essere in un sogno.
Arrivo giù. Vedo la luce filtrare da sotto una porta chiusa. I miei sono lì. Senza rendermene conto mi ritrovo all’interno della stanza. Iniziamo a litigare per motivi assolutamente futili, tanto che non li conosco nemmeno.
Mi sento accusato ingiustamente. E con una reazione comunque eccessiva. Spropositata.
Mi sento come in America di Kafka. Come Karl Rossmann di fronte all’eccessiva punizione dello zio.
Dimentico di essere in un sogno.

È di nuovo l’alba.
Rivedo il mare, vedo di nuovo la luce del sole fare capolino tra le nuvole. Rivedo i monti innevati sullo sfondo.
La stessa sensazione di serenità e di pace. La stessa avvolgente sensazione di stare osservando qualcosa di bello e di armonioso.
Ma i bei sogni danno solo un’effimera serenità a chi, del sogno, è attore, spettatore ed involontario autore. Una serenità destinata a svanire al momento del risveglio, sostituita da un acuto e malinconico senso di abbandono forzato. Dalla penetrante consapevolezza di aver perso qualcosa che si era conquistato a fatica.
Penso che sia estremamente noioso leggere queste cose. Penso che mi incazzerei a morte nel leggere qualcosa del genere. È un sogno. E i bei sogni non interessano a nessuno.
Occorrono incubi se si vuole scrivere.



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