venerdì 5 marzo 2010

Sogni in 35 mm #2

Ognuno sogna i sogni che si merita.
(Gesualdo Bufalino, Il malpensante)

Ho fatto sogni violenti, questa notte.
Evidentemente, essendo costretto al silenzio, l’irruenza – alimentata ma allo stesso tempo sopita a forza da questa condizione – ha cercato altre valvole di sfogo.
Non parlo ormai da cinque giorni.

Sono tornato sui banchi di scuola. È il primo giorno dopo le vacanze estive, ma la professoressa di matematica già interroga. La lotteria truccata del suo dito sceglie due miei compagni. Sospiro di sollievo. Non ho studiato niente. Ma pensandoci bene, che cazzo avrei dovuto studiare, se è il primo giorno di scuola? Tuttavia, guardando per scrupolo il mio quadernone, lo trovo pieno di appunti. Me la faccio sotto. Sono al primo banco, la professoressa, predatrice consumata posta dalla crudele evoluzione in un gradino molto alto della scala alimentare, annusa la mia paura, percepisce la mia adrenalina. Mi lancia un’occhiata sfuggente ma molto significativa, che per un po’ mi si fissa nella mente in una specie di loop al rallentatore.
Intanto l’interrogazione dei miei compagni va avanti, il tempo passa, comincio a pensare di averla scampata. Tanto che accetto l’invito del mio compagno di banco a copiare gli esercizi per l’ora successiva, va a sapere perché, sempre di matematica (a ripensarci, la prof è di matematica, ma gli appunti che ho guardato sono di storia, o di filosofia). Accetto volentieri, e faccio per girarmi a prendere il quaderno. La predatrice mi intercetta al volo.
«Allora, vorrei sentire… il Signor F.».
Minchia, lo sapevo lo sapevo.
Il sangue mi va agli occhi. Mi lancio contro la professoressa gridando come un ossesso.
Nero.



















Ora sono in un autogrill. Non so il perché, ma mi comporto come una specie di bulletto da film americano. Piccoli dispetti, niente più.
Dopo alcuni rocamboleschi inseguimenti con il personale del locale, mi ritrovo braccato dietro il bancone. Si avvicina una specie di vigilante che, ridacchiando e pregustando sadicamente il divertimento, brandisce una spada contro di me. Fa finta di affondare alcuni colpi. Ridacchia ancora.
Io lo supplico. Lo prego di non uccidermi. Lui ridacchia e brandisce la sua arma. Cerca di infilzarmi. Lo scongiuro singhiozzando e cerco, per quanto possibile, di allontanarla da me. Ma lui torna sempre alla posizione di partenza. Ridacchiando. Vuole proprio farmi fuori.
Ed è allora che approfitto del suo divertimento e della sua distrazione, per afferrare la spada, che nel frattempo si è trasformata in un incrocio tra un’ascia, una roncola, una falce, una zappa e un attrezzo per la mattanza (è tutte queste cose insieme!), con più decisione. Mi alzo di scatto e inizio ad affondare l’arma direttamente nel suo cuore. Uno, due, tre, quattro colpi ben assestati.
Il primo colpo mi ha fatto un po’ d’impressione, nonostante l’istinto di autodifesa e di sopravvivenza guidassero la mia mano. Il secondo già un po’ meno, è arrivato per inerzia. Il terzo e il quarto per la certezza di uccidere quel bastardo.
Mi si para davanti un altro deficiente, gli riservo un trattamento simile. Meno appassionato, ma più meticoloso. La mia mano è sempre più ferma e meno esitante. Uno, due, tre, quattro.
Ci sto prendendo decisamente la mano, non mi sono sporcato neanche.
Ci sto prendendo gusto, anche. La musica mi è sempre piaciuta, ma non pensavo di avere un talento innato per le carneficine in quattro quarti.





















Sono fuori adesso. Qualcuno/a mi sta inseguendo. Siamo usciti entrambi dalla porta di una casa oscura. Io ho un certo margine di vantaggio. Svolto l’angolo, corro per un po’ e, valutando rapidamente la situazione, decido di nascondermi e poi tornare indietro, proprio dentro la casa da cui siamo usciti. Non verrà mai a cercarmi là dentro.
Mi nascondo goffamente dietro un’auto parcheggiata accanto al marciapiede. Mentre il mio inseguitore avanza verso di me, inizio a girare attorno all’auto. Mi ritrovo sulla strada, che è a senso unico. Le auto mi sfiorano viaggiando controsenso. Non riesco a nascondermi bene. È una cosa che faccio con l’atteggiamento di uno che deve fare qualcosa perché ci è obbligato, senza passione – nonostante sia inseguito – e senza voglia di farla bene. Una cosa fatta solo perché va fatta, così, tanto per fare, e basta.
L’inseguitore passa sul marciapiede, io mi abbasso un po’ di più, ma senza sforzarmi eccessivamente. Può vedermi con molta facilità. Io lo so, ma non faccio nulla. Lui non mi vede, o fa finta, e passa oltre. Facilitato dalla posizione da centometrista alla partenza, mi lancio di scatto verso la casa. Penso che sarebbe ridicolo vedere un artificio narrativo così stupido e banale in un film.
Mi sveglio. Pensando che dovrei evitare errori così grossolani, nei miei sogni.


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1 commento:

Andrea ha detto...

Scappa scappa, tanto ti prendo...

Lo ricordavo questo!