lunedì 19 luglio 2010

Aquarium


Aquarium from VidemmaFilm on Vimeo.
di Enzo Fratalia


Video di prova realizzato con un obiettivo particolare durante il workshop fotografico di Graziano Panfili, organizzato dall'Associazione Istanti in collaborazione con l'Istituto Italiano di Design di Perugia.

Qua il link di youtube:
http://www.youtube.com/videmmafilm?gl=IT&hl=it#p/a/u/0/oguWFDvyC8Y

lunedì 7 giugno 2010

Sogni in 35 mm #4

Stazione sotterranea della metropolitana, o qualcosa di molto simile. Io e Lisa siamo lì, va a sapere perché.
Sto perdendo tempo a far foto, come al solito, quando mi accorgo di non avere biglietti. Andiamo per farli ma non ci riusciamo, pare siano finiti. Un signore in divisa viene verso di noi con un biglietto in mano, gli chiedo dove lo abbia preso, e lui mi indica l’altro lato della fermata, a cui stranamente si può accedere con facilità, nonostante si trovi al di là dei binari. “Dall’altra parte - mi dice. In Germania”.
Realizzo che la linea dei binari si trova sul confine. In effetti, guardandola meglio, la stazione ha tutta l’aria di una dogana. E capisco anche, improvvisamente, che da questa parte c’è uno sciopero, mentre dall’altra parte, in Germania, no.

C’è un’atmosfera anni 40, in stile Casablanca, ovattata ma allo stesso tempo vagamente minacciosa.
“Resta qua, ci vado io a prenderli, i biglietti, tu intanto fai le foto”, mi fa Lisa cominciando ad allontanarsi. Non ho il tempo di dire di no, che già la vedo sparire oltre la linea con un salto aggraziato, accenno una reazione ma rimango bloccato dal flusso di folla che si affretta con passo deciso in direzione opposta alla mia.


Ormai è fatta, non posso farci più niente. Succederà qualcosa, lo sento, ma aspettare per aspettare, tanto vale che faccia quella benedetta foto. Mi appoggio alla balaustra, e ho appena il tempo di accostare l’occhio al mirino e di inquadrare Lisa, in lontananza, con trench chiaro e cappello alla Ilsa/Bergman (Ilsa, curioso anagramma), che all’improvviso scompare, mentre la voce monotona e sinistra dell’altoparlante comincia a vomitare: “La Germania è stata invasa”. Sì, proprio così, la Germania è stata invasa. Ma non era il contrario?, mi chiedo mentre apprendo, chissà come, che Lisa si trova in Polonia.

In mente, immagini di lei su un treno che viaggia in mezzo alla neve, il suo primo piano in dissolvenza con lo sfondo, come riflesso su un finestrino; si intuiscono già i campi di concentramento.
Minchia, lo sapevo lo sapevo. Dovevo fare di tutto per non farla andare da sola al di là dei binari.
Resto qui, immobile e impotente, senza biglietto per andare da nessuna parte.


mercoledì 12 maggio 2010

giovedì 6 maggio 2010

Errore di Sistema Irreversibile

- Eh... il problema è il sistema... è il sistema!
- Hai ragione.
- È il sistema, il problema.
- Sì, ok, ma come si fa a cambiare sistema?
- Eh... ci vuole un sistema.

Bingo!
Non siamo altro che la somma delle nostre contraddizioni.

Mi è tornata alla memoria una foto di Dworzak. Da quando l'ho vista, per una sorta di imprinting, per l'estrema sintesi, la ritengo la più rappresentativa della Contraddizione dei nostri tempi.
Un manifestante, al G8 di Genova, scaglia qualcosa contro i poliziotti, contro il "Sistema", contro la globalizzazione.
Contro un nemico invisibile al di là di una cancellata.
Con ai piedi scarpe con una grossa N!

C'è proprio qualcosa che non va. Decisamente.


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giovedì 15 aprile 2010

L'incoscienza di EnZo

Ovvero “La coscienza di essere nati in mezzo a tutto questo”.

“…e il più bel silenzio mai ascoltato nascerà da tutto questo
il sole nascosto attenderà il capitolo successivo.”

Proprio come Zeno:
“Ci sarà un'enorme esplosione che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”

È quello che ho sempre pensato, in fondo.
Anzi: è quello a cui ho sempre cercato di non pensare.
Ognuno ha la sua particolare ricetta, per questo. Ci mettiamo un'intera vita a metterla a punto, e più la ricetta si fa ricca e sofisticata, più ci indirizza verso ciò che vorremmo sfuggire.






















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venerdì 26 marzo 2010

5 modi per liberarsi definitivamente dai Testimoni di Geova


Antefatto:
TRRR TRRR

TRRR TRRR
“Chi è?”
“Mi chiamo Blablabla, stiamo distribuendo un volantino, ne possiamo parlare?”
“No. In questo momento ho da fare”.
“Allora possiamo metterlo nella cassetta?”
“Lo metta dove vuole”.

Dialogo n°1
TRRR TRRR
“Chi è?”
“Mi chiamo Blablabla, abbiamo un volantino, ne possiamo parlare?”
“Ma siete testimoni di Geova?”
“Sì”.
“Ma il Regno dei Cieli non è destinato solo a 144.000?”
“…”
“Allora?”
“Sì”.
“E allora perché diavolo cercate ancora altre persone da convertire? Non siete già in troppi?”
“…”
“Quanti sarete? 5 o 6 milioni nel mondo? E il Regno dei Cieli è per 144.000… Dovreste cominciare a fare il contrario. È tempo di buttare fuori qualcuno, piuttosto”.
“…”
“Fossi in lei comincerei a preoccuparmi. Lei, per esempio, si salverà?”
“…”
“Le do un consiglio aggratis… cominci a pensare a come salvarsi il culo. Buttate fuori un po’ di gente”.

Dialogo n°2
TRRR TRRR
“Chi è?”
“Testimoni di Geova”
“Oh, che piacere!”
“Dice davvero?”
“Certo!”
“Sono contenta, finalmente una persona gentile”.
“Sono contento perché il mondo doveva finire nel 1975, secondo le vostre ultime previsioni”.
“…”
“E invece siamo ancora qua. Non è contenta anche lei?”

Dialogo n°3
TRRR TRRR
“Chi è?”
“Salve, possiamo parlare di Dio?”
“No”.
“Come no?”
“No. Siamo in due a parlare, giusto? Avrò anch’io voce in capitolo sulla scelta dell’argomento?”
“Ma…”
“Per esempio… possiamo parlare di Jonathan Coe?”
“Gionata chi? È un profeta?”
“No, uno scrittore”
“…”
“Signorina, allora, ne vogliamo parlare?”
“…”
“Signorina…”
“…”
“Signorina… Signorina...”

Dialogo n°4
TRRR TRRR
“Chi è?”
“Testimoni di Geova”
“Che c’è?”
“Siamo qui per la sua salvezza”.
“La mia salvezza? Ma voi lo sapete che io sono salvo grazie a una trasfusione di sangue?”
“…”
“Fosse dipeso da voi, a quest’ora sarei morto!”

Dialogo n°5
TRRR TRRR
“Chi è?”
“Testimoni di Geova”
“Ma siete sicuri?”
“… Sì”.
“Ma sicuri sicuri?”
“Sì”.
“Ma il mondo non è finito nel ‘75?”
“…”
“Voi non esistete”.
“…”
“Noi non esistiamo. Shhhhh”.

lunedì 22 marzo 2010

Agenzia Patrimoniale

Passeggio fra gli scaffali della grande libreria della stazione, passo in rassegna dei libri e li sfoglio distrattamente mentre aspetto il treno.
All’improvviso:
- Pronto?
A rispondere è un uomo sui settanta, o sui sessanta portati male, vestito in maniera trasandata e mal assemblata, barba brizzolata, radi capelli arruffati. Ha le lenti da sole alzate sugli occhiali da vista.

- Quanti anni ha? 62? Sei, due?
- ...
- Si vuole sposare?
- ... 
- Vuole fare ma-tri-mo-nio?
- ... 
- 70. Ha 70 anni. Autosufficiente, guida la macchina.
- ... 
- Ricco. Pausa, poi sottolinea: ricco.
Due donne accanto a me si guardano con complicità, anche se non si conoscono, e sorridono.
L’uomo attraversa il settore Architettura, sempre incurante che altri possano sentire la sua telefonata.
- Le interessa? Le interessa? ripete con la sua cadenza monotona.
- ... 
- Deve mandarmi una foto. No, lei! Deve mandarmi una foto!
- ... 
- Sa mandare una foto per telefono? Sa mandare una foto per telefono? Una foto per telefono la sa mandare?
- ... 
- Allora se la faccia fare. Si faccia aiutare e la mandi.
Click.

Senza nemmeno volerlo mi scopro a seguirlo. Me ne accorgo perché mi ritrovo davanti libri come Forme di polistirolo, L’arte del découpage e Mosaico facile.
Lui sta sfogliando un libro d’arte di grande formato su Giorgione. In mano tiene stretto un libro dalla copertina nera, con una donna nuda. Si intitola Hard.
Dopo essere passato a La vera storia di Lucio Battisti, si dirige verso la cassa. Dribblo in blocco il settore Giardinaggio, e gli sono dietro.

- I libri di poesia?
- Accanto a Critica letteraria. Lo vede? Critica letteraria. Accanto.
L’uomo va verso il punto indicato dalla cassiera, e io lo seguo. Lo inquadro con discrezione, tenendo fra me e lui un paio di scaffali. Le mie carrellate laterali sfocano il primo piano coi libri e tengono a fuoco lui e le sue lenti alzate.
Ogni volta che si gira, o semplicemente accenna a farlo, mi trova con un libro in mano, o mentre mi accingo a prenderlo con naturalezza da uno scaffale, o con la testa piegata, intento a leggere i titoli sul dorso. Le orecchie bene aperte.
Sorrido internamente, mentre afferro un libro a caso. Sto giocando al piccolo detective, e mi riesce pure bene.

Intanto l’uomo lascia la borsa su uno scaffale basso, e prosegue il suo giro.
Dà un’occhiata a Vita di un uomo di Ungaretti e a un volume delle Opere di Wislawa Szymborska.
Tutt’a un tratto l’altoparlante comincia a vomitare: il proprietario dello zaino lasciato accanto alla cassa del piano terra è pregato di ritirarlo immediatamente.
Gli occhi mi vanno istintivamente alla borsa lasciata dall’uomo.
Beh, la voce diceva del piano terra, io sto al piano interrato. Ma dove sarà la cassa? penso guardando il soffitto e la cassa del mio piano per valutare gli eventuali effetti di un’esplosione.
Di nuovo l’annuncio: il proprietario dello zaino lasciato accanto alla cassa del piano terra è pregato di ritirarlo im-me-dia-ta-men-te.
Stavolta gli occhi mi vanno ai libri che ho davanti. Vedo un titolo su Una bomber e uno su La strage di Bologna con prefazione dell’immancabile Carlo Lucarelli. Andiamo bene!
Mentre l’uomo recupera la sua borsa e si sposta verso la cassa, poso prontamente La strage di Piazza Fontana, che nel frattempo avevo preso in mano, e lo seguo.

- Glielo incarto? fa la cassiera, forse vedendo la donna nuda in copertina.
- No! risponde seccamente l’uomo, quasi avvertendo in quella richiesta un’implicita offesa.
Mentre la cassiera lavora col libro, l’uomo nota dei piccoli bloc-notes con dei gattini in copertina. Kitty, si chiamano.
- Quant’è questo, 50? chiede prendendone uno.
- 50.
Paga ed esce.
Ormai è uscito, sono solo, e niente potrà più salvarmi dall’esplosione potenziale imminente.
Vorrei seguirlo, in un film lo avrei seguito, ma ho un libro in mano, unica copia presente in libreria, che non riuscirei a pagare in tempo. Lo avrei abbandonato sullo scaffale e sarei andato fuori dietro all’uomo, in un film.
I miei pensieri sono interrotti dall’altoparlante, ancora una volta: il proprietario dello zaino lasciato accanto alla cassa del piano terra è pregato di ritirarlo immediatamente.
Non ho il tempo di agitarmi, Già fatto, risponde un’altra voce metallica.
 
Vado alla cassa, faccio la fila, pago e mi avvio verso l’uscita, pronto a rituffarmi nella città e nell’assurdo e grottesco flusso di collegamenti con cui ci bombarda di continuo.
Esco. Non prima di avere appuntato questa storia.


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martedì 9 marzo 2010

Sogni in 35mm #3
















"Scrivere - diceva Marguerite Duras - è anche non parlare.
È tacere. È urlare senza emettere suoni."
E. Vila-Matas, Bartleby e compagnia

È un’alba stupenda, fiabesca, da sogno. La vedo dalla mia finestra. Aspiro a pieni polmoni l’aria piacevolmente fresca e pulita. Ho una viva sensazione di pace e tranquillità.
Sto talmente bene che non sento la solita, continua e ossessiva necessità di realizzare i miei sogni e le mie aspirazioni, di riuscire a mettere ordine nella mia vita.
Non parlo ormai da nove giorni.
Dicono che nei sogni il mare rappresenti la nostra anima, la nostra interiorità, il nostro inconscio.
Il mare si trova in luogo familiare. Un luogo in cui so che il mare non c’è. Un luogo che di solito è coperto di grano. Come se la mia anima fosse ormai parte integrante di quei posti, come se vi fosse indissolubilmente legata. Come se ne avesse bisogno per esistere.
La luce del sole esce da alcuni squarci fra le nubi che sovrastano i monti innevati sullo sfondo. Inizia a danzare sulle onde leggere del mare, emanando diffusi e inafferrabili riflessi.
Com’è bella la mia anima. In superficie.
Sotto c’è tutta l’oscurità profonda e inconoscibile di quella massa d’acqua enorme, plumbea.

Salgo su un autobus urbano che percorre la campagna. C’è sempre il mare, sullo sfondo. Protetto labilmente dalle sagome ad ombrello di pini marittimi. Guardo di sfuggita un uomo avvinghiato a un’asta di sostegno per i passeggeri. Mi assomiglia, potrei essere io. Forse sono proprio io. Mi fa immediatamente antipatia. Il ritmo è lento. Il mio sguardo indugia a lungo sui particolari. A volte si ferma e torna indietro, per poi riposarsi su cose ormai viste. Realizzo di essere dentro un film francese. Non sono lenti i film francesi. Sono ovattati, estraniati, indugianti. Consapevoli di essere dei film. Consapevoli di essere nati dallo sguardo indagatore di una telecamera.
Rivedo l’uomo. Cazzo se mi assomiglia. È sempre avvinghiato al suo appiglio.
Forse sono davvero io. Forse il mio punto di vista è quello della telecamera che mi osserva, quello della telecamera che ha girato un film fatto bene. Un film che ci mostra noi stessi.

Sono arrivato a casa mia. Chiamo i miei, ma non mi risponde nessuno. Devono essere giù. Scendo per le scale, levitando leggermente.
C’è un cane, in fondo. Particolare stonato in casa mia. Troppo stonato.
Prevedo che tra poco capirò di essere in un sogno.
Pensiero piuttosto singolare. Che mi fa capire di aver sempre saputo, in realtà, di essere in un sogno.
Arrivo giù. Vedo la luce filtrare da sotto una porta chiusa. I miei sono lì. Senza rendermene conto mi ritrovo all’interno della stanza. Iniziamo a litigare per motivi assolutamente futili, tanto che non li conosco nemmeno.
Mi sento accusato ingiustamente. E con una reazione comunque eccessiva. Spropositata.
Mi sento come in America di Kafka. Come Karl Rossmann di fronte all’eccessiva punizione dello zio.
Dimentico di essere in un sogno.

È di nuovo l’alba.
Rivedo il mare, vedo di nuovo la luce del sole fare capolino tra le nuvole. Rivedo i monti innevati sullo sfondo.
La stessa sensazione di serenità e di pace. La stessa avvolgente sensazione di stare osservando qualcosa di bello e di armonioso.
Ma i bei sogni danno solo un’effimera serenità a chi, del sogno, è attore, spettatore ed involontario autore. Una serenità destinata a svanire al momento del risveglio, sostituita da un acuto e malinconico senso di abbandono forzato. Dalla penetrante consapevolezza di aver perso qualcosa che si era conquistato a fatica.
Penso che sia estremamente noioso leggere queste cose. Penso che mi incazzerei a morte nel leggere qualcosa del genere. È un sogno. E i bei sogni non interessano a nessuno.
Occorrono incubi se si vuole scrivere.



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sabato 6 marzo 2010

SuperMaxiE(r)ro(r)e

Lo guardavo sempre Ralph SuperMaxiEroe.
Lo guardavo sempre anche se mi faceva incazzare. Come altri telefilm e cartoni, del resto.
E sempre erano come qualcosa di inevitabile. Il telefilm o il cartone andava guardato, anche se non piaceva, quasi fosse un rituale, un succedaneo di una sorta di messa, un catechismo pagano preparatorio a un credo consumistico ricco di facili promesse. Non tanto a buon mercato, a dire il vero.
Davano quel dato telefilm, a quella data ora. E quel dato telefilm, a quella data ora, andava guardato. Se ci fosse qualcosa di precocemente masochistico, in questo, o un’altrettanto precoce tendenza a vivere in un altrove qualsiasi, purché non fosse la realtà, non lo so.

In tutta onestà, Ralph non era esattamente un serial che non apprezzavo. Tutt’altro. Intanto non vedevo l'ora di leggere "Frank Lupo" sui titoli di testa, perché ipotizzavo vagamente fosse un mio compaesano. Ma soprattutto mi entusiasmava talmente tanto che il protagonista potesse volare, che mi faceva incazzare proprio il fatto che non sapesse volare bene.
Sarà che già allora mi piacevano le cose che funzionano. La storia del manuale perso o intraducibile, ora non ricordo bene, non mi convinceva troppo. Cazzo, fai un telefilm, organizzi tutto, lo giri, e poi non mi fai volare l’eroe? Il Supermaxieroe? The Greatest American Hero? A vederla oggi, la sentivo come una presa per il culo intollerabile, credo. Non ritenevo ammissibile che nel mio mondo alternativo, nel mio altrove, le cose non andassero per il verso giusto. Ci bastavo già io, nel mondo reale, a procurarmi escoriazioni varie lanciandomi dai mobili della cucina col vestito di Superman o dell’Uomo Ragno (negli anni 80 Spiderman non lo conoscevamo) che indossavo spesso, tutto l’anno, senza bisogno di aspettare Carnevale.
Cazzo Ralph, vola bene. Fregatene di quello stramaledittissimo manuale e vola! Impara ad atterrare. Non cadere a terra in modo vergognosamente simile a come cado a terra io, col mantello di Superman che mi si avvolge e attorciglia sulla faccia. Solo che io ho 4 o 5 anni. Non tu, Ralph, non lì. Non in quell’altrove contenuto in quella scatoletta, in quell’acquario con dentro immagini che si muovono, al posto dei pesci.
A dir la verità, ed esagerazioni ruffiane a parte, atterravo spesso sui due piedi.  Cadevo in piedi, sì, ma non potevo certo dire di aver davvero volato. Ralph volava, in maniera altalenante, ovvio, ma volava. Io atterravo. C’era qualcosa che non mi quadrava. Non riuscivo a vedere un mondo dove fosse tutto, simultaneamente, possibile. Pedalavo a vuoto, insomma. In folle.
















Più o meno la stessa frustrazione che avrei provato qualche anno dopo in alcuni sogni ricorrenti, nei quali non riuscivo a fare quello che volevo, pur essendo del tutto consapevole di essere in un sogno, e anzi desideroso che tutto si svolgesse esattamente come desideravo proprio per quello.
Ne ricordo uno in particolare, scendevo con una bicicletta da una discesa molto ripida che conoscevo bene, e dovevo svoltare a U per imboccare la strada principale in senso opposto. Nelle mie intenzioni dovevo farlo a tutta velocità, senza frenare; tanto ero in un sogno.
Ma in realtà finivo tutte le volte per entrare in una specie di loop rallentato e inesorabile in cui, vedendomi dall’esterno, mi riportavo in cima alla discesa e riprovavo a fare quel movimento. Senza mai riuscirci. Minchia, com’è che non ce la faccio, è il mio sogno! Forse proprio perché il sogno aveva le sue regole, e io non ne ero il signore assoluto. Dovevo accettarle e adattarmi.

La vita ha poi avuto modo di mostrarmi che le cose spesso, semplicemente, e non sempre per colpa nostra, non funzionano. E di capire perché quel manuale non ci fosse, e quanto geniale e necessario fosse quell'escamotage.
Lo capisco ora che non voglio più trovare soltanto un altrove, dentro gli acquari.
Lo capisco ora che dentro agli acquari voglio vedere chi siamo.
Lo capisco ora che non mi vesto più da Superman o da Uomo Ragno.
Ora che indosso un'armatura. Ma questa è un’altra storia, che spero di raccontare presto. In altri modi.
Per il momento, Believe it or not I’m walking on air...


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venerdì 5 marzo 2010

Sogni in 35 mm #2

Ognuno sogna i sogni che si merita.
(Gesualdo Bufalino, Il malpensante)

Ho fatto sogni violenti, questa notte.
Evidentemente, essendo costretto al silenzio, l’irruenza – alimentata ma allo stesso tempo sopita a forza da questa condizione – ha cercato altre valvole di sfogo.
Non parlo ormai da cinque giorni.

Sono tornato sui banchi di scuola. È il primo giorno dopo le vacanze estive, ma la professoressa di matematica già interroga. La lotteria truccata del suo dito sceglie due miei compagni. Sospiro di sollievo. Non ho studiato niente. Ma pensandoci bene, che cazzo avrei dovuto studiare, se è il primo giorno di scuola? Tuttavia, guardando per scrupolo il mio quadernone, lo trovo pieno di appunti. Me la faccio sotto. Sono al primo banco, la professoressa, predatrice consumata posta dalla crudele evoluzione in un gradino molto alto della scala alimentare, annusa la mia paura, percepisce la mia adrenalina. Mi lancia un’occhiata sfuggente ma molto significativa, che per un po’ mi si fissa nella mente in una specie di loop al rallentatore.
Intanto l’interrogazione dei miei compagni va avanti, il tempo passa, comincio a pensare di averla scampata. Tanto che accetto l’invito del mio compagno di banco a copiare gli esercizi per l’ora successiva, va a sapere perché, sempre di matematica (a ripensarci, la prof è di matematica, ma gli appunti che ho guardato sono di storia, o di filosofia). Accetto volentieri, e faccio per girarmi a prendere il quaderno. La predatrice mi intercetta al volo.
«Allora, vorrei sentire… il Signor F.».
Minchia, lo sapevo lo sapevo.
Il sangue mi va agli occhi. Mi lancio contro la professoressa gridando come un ossesso.
Nero.



















Ora sono in un autogrill. Non so il perché, ma mi comporto come una specie di bulletto da film americano. Piccoli dispetti, niente più.
Dopo alcuni rocamboleschi inseguimenti con il personale del locale, mi ritrovo braccato dietro il bancone. Si avvicina una specie di vigilante che, ridacchiando e pregustando sadicamente il divertimento, brandisce una spada contro di me. Fa finta di affondare alcuni colpi. Ridacchia ancora.
Io lo supplico. Lo prego di non uccidermi. Lui ridacchia e brandisce la sua arma. Cerca di infilzarmi. Lo scongiuro singhiozzando e cerco, per quanto possibile, di allontanarla da me. Ma lui torna sempre alla posizione di partenza. Ridacchiando. Vuole proprio farmi fuori.
Ed è allora che approfitto del suo divertimento e della sua distrazione, per afferrare la spada, che nel frattempo si è trasformata in un incrocio tra un’ascia, una roncola, una falce, una zappa e un attrezzo per la mattanza (è tutte queste cose insieme!), con più decisione. Mi alzo di scatto e inizio ad affondare l’arma direttamente nel suo cuore. Uno, due, tre, quattro colpi ben assestati.
Il primo colpo mi ha fatto un po’ d’impressione, nonostante l’istinto di autodifesa e di sopravvivenza guidassero la mia mano. Il secondo già un po’ meno, è arrivato per inerzia. Il terzo e il quarto per la certezza di uccidere quel bastardo.
Mi si para davanti un altro deficiente, gli riservo un trattamento simile. Meno appassionato, ma più meticoloso. La mia mano è sempre più ferma e meno esitante. Uno, due, tre, quattro.
Ci sto prendendo decisamente la mano, non mi sono sporcato neanche.
Ci sto prendendo gusto, anche. La musica mi è sempre piaciuta, ma non pensavo di avere un talento innato per le carneficine in quattro quarti.





















Sono fuori adesso. Qualcuno/a mi sta inseguendo. Siamo usciti entrambi dalla porta di una casa oscura. Io ho un certo margine di vantaggio. Svolto l’angolo, corro per un po’ e, valutando rapidamente la situazione, decido di nascondermi e poi tornare indietro, proprio dentro la casa da cui siamo usciti. Non verrà mai a cercarmi là dentro.
Mi nascondo goffamente dietro un’auto parcheggiata accanto al marciapiede. Mentre il mio inseguitore avanza verso di me, inizio a girare attorno all’auto. Mi ritrovo sulla strada, che è a senso unico. Le auto mi sfiorano viaggiando controsenso. Non riesco a nascondermi bene. È una cosa che faccio con l’atteggiamento di uno che deve fare qualcosa perché ci è obbligato, senza passione – nonostante sia inseguito – e senza voglia di farla bene. Una cosa fatta solo perché va fatta, così, tanto per fare, e basta.
L’inseguitore passa sul marciapiede, io mi abbasso un po’ di più, ma senza sforzarmi eccessivamente. Può vedermi con molta facilità. Io lo so, ma non faccio nulla. Lui non mi vede, o fa finta, e passa oltre. Facilitato dalla posizione da centometrista alla partenza, mi lancio di scatto verso la casa. Penso che sarebbe ridicolo vedere un artificio narrativo così stupido e banale in un film.
Mi sveglio. Pensando che dovrei evitare errori così grossolani, nei miei sogni.


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mercoledì 3 marzo 2010

Sogni in 35 mm #1

 "Mi sveglio, talvolta, e per un minuto non so chi sono.
Sarà così, la morte? Rincorrere tutta la notte un se stesso che fugge,
cercandosi dentro, senza trovarlo, un nome dimenticato?"

"La morte naturale non esiste: ogni morte è un assassinio.
E se non si urla, vuol dire che si acconsente."

(Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore)

Non parlo ormai da 99 ore. Anche se tecnicamente non è così. Forse perché l’istinto di parlare, ormai più che acquisito, è troppo forte.
Stanotte, infatti, mi sono svegliato gridando. O meglio, mia sorella mi ha riferito solo di qualche mugolio, ma a me è sembrato di aver gridato a squarciagola.
E ricordo il perché.
Stavo sognando. Come in 2001: odissea nello spazio, dopo una serie di immagini confuse e psichedeliche, ho visto me stesso vecchio, con addosso una tuta da astronauta, che mi si avvicinava in un modo che mi è parso minaccioso.
Sono proprio un soggetto pericoloso. O forse, chissà, era spaventato anche lui.
Mi sono alzato di soprassalto, a mezzo letto. La situazione era insostenibile. La conoscenza porta con sé un notevole margine di male e sofferenza. Di riflesso, ho cercato l’interruttore della lampada, dopo qualche goffo e assonnato tentativo ho acceso la luce. Mi sono guardato attorno, sicuro che non ci fosse nulla da temere, ma molto sospettoso e guardingo. Mi sono maledetto per aver parlato. Devo stare attento alle corde vocali, cazzo. Ho spento la luce a malincuore, mi sono girato dall’altra parte, e ho ripreso il mio sogno.
Mi ritrovo quasi subito, mio malgrado, su un aereo pronto al decollo. Un normale aereo di linea, solo molto più largo in avanti. Largo da poter contenere un piccolo schermo cinematografico.
Non ho il tempo di rendermi conto della situazione che stiamo già decollando. Mi affretto a cercare un posto su cui sedermi, ma le file di seggiolini, per numero e forma, sono quelle di un cinema piuttosto che quelle di un aereo, comunque presenti in ordine sparso, e non riesco a trovarne una adatta. I seggiolini da aereo sono già tutti occupati, uno, quello accanto al quale mi siedo, dalla mia ragazza. Incinta. Mi assicuro rapidamente che stia bene. L’aereo si muove, non mi resta che buttarmi alla meno peggio su un seggiolino da cinema.
Nel mentre, sulla parete di fronte a noi, che è uno schermo cinematografico, trasmettono le immagini del mancato disastro aereo che, in precedenza, ha visto tutti i passeggeri dell’attuale volo protagonisti.
Per tranquillizzarci, dicono.
















Nel controllato panico generale, che sta coinvolgendo anche me, sento, pur essendo quasi immobilizzato e predestinato, di dover fare qualcosa. E, d’improvviso, mi giro a guardare fuori dal finestrino. Notando, così, che la rincorsa per il decollo sta avvenendo in maniera normale.
Nel controllato ma diffuso panico, mentre l’aereo si stacca da terra, io mi tranquillizzo.
Penso alla potenza della persuasione e, soprattutto, del condizionamento.
È stato sufficiente proiettare qualche immagine catastrofica su un aereo in partenza, per scatenare la paura. Mi è bastato guardare la situazione reale, per calmarmi.
















Ma è solo un attimo. L’aereo, infatti, appena staccatosi da terra, compie un’improvvisa e brusca impennata verso l’alto, che giudico immediatamente eccessiva. Le cinture, che non ricordavo di avere attaccato, visto che mi ero seduto sulla poltroncina del cinema, fanno il loro dovere. Infatti l’aereo, che riesco a vedere anche dall’esterno, da sotto, decolla in verticale. In poche frazioni di secondo ci ritroviamo nello spazio, abbiamo sfiorato per un pelo una cintura di asteroidi marroni circondati da un alone blu, non minacciosa ma di certo pericolosa. Più in là si intravede un non meglio definito pianeta. Mi sento all’interno della sigla di Star Trek. The next generation, nel momento in cui la voce fuori campo dice: «Spazio. Ultima frontiera. Questi sono i viaggi… eccetera eccetera».
I piloti sembrano stupiti quanto noi di quello che è successo. Poi si guardano e si danno il cinque.
Io sono indeciso tra il congratularmi con loro per la riuscita dell’impresa fuori programma e il bastonarli sonoramente proprio per il fuori programma.
Non so cosa pensare.
A togliermi dall’imbarazzo ci pensa il sogno stesso. D’improvviso mi ritrovo a terra, in un luogo familiare e nello stesso tempo alieno.
Come un condottiero, sono alla guida dei passeggeri che stanno per assoggettarsi ad un nemico che ci viene contro puntando una pistola. I passeggeri si spaventano, stanno per disperdersi, io inizio ad incitarli, a gridare di stare tutti uniti. E in quel momento esatto il nemico, che non conosco pur avendo una faccia familiare, stende il braccio e si accinge a sparare. La folla che ho dietro tende ad allargarsi e il mio primo istinto è di fare lo stesso, anche se so già che non lo farò. Grido ancora di stare uniti, che è l’unico modo che abbiamo di sopravvivere, di vincere. Dopodiché mi butto tra la pistola e la folla. Mentre mi butto penso di evitare le pallottole, ma so che è inevitabile prenderle se voglio impedire che finiscano sugli altri. E infatti me le prendo. Tutte.
Cado a terra, facendo mentalmente un rapido check-up del mio corpo. Nel tronco ho varie pallottole, ma la mia attenzione viene catalizzata immediatamente da quella che ho tra il naso e l’occhio sinistro. Cazzo, penso, questo è un colpo mortale. Ora non mi resta che agonizzare per un po’ e poi morirò. Cazzo, ma intanto sto bene, non provo alcun dolore, solo un leggero fastidio tra il naso e l’occhio sinistro, ah già, lì c’è la pallottola. Come sarà quest’agonia, ormai dovrei essere già agonizzante, forse già lo sono e non me ne rendo conto. Ho il viso riverso sul ciglio in pietra della strada, sembra il ciglio della strada che percorrevo quando tornavo a casa dalla scuola elementare. Il mio nemico si china su di me per controllarmi. Mi guarda distrattamente, ma non mi tocca. Cazzo, dovrei essere agonizzante e dovrei esser sul punto di morire, cazzo, fra un po’ dovrei morire.
Sto nell’attesa di questa morte imminente.
Aspetto, aspetto, aspetto.
Non muoio.


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lunedì 1 marzo 2010

Multifilter

Guardare il mondo attraverso i vetri è come guardare in un acquario. O in una sfera di cristallo.
A saperlo leggere, il curioso gioco di trasparenze e riflessi dice più di quanto possa sembrare a un primo sguardo superficiale. O siamo noi a volerlo interpretare a tutti i costi, a volerci vedere corrispondenze e simboli che la nostra cultura ci ha instillato in vari modi.
Tutto dipende dai filtri con cui guardiamo: filtri culturali, che accendono la nostra attenzione e immaginazione; filtri tecnici, nel caso della fotografia (la scelta di un determinato obiettivo, della porzione di spazio da inquadrare, del punto da mettere a fuoco…); e, conseguentemente, scelta più o meno istintiva dell’attimo in cui fare click.
Quella che era una semplice vetrina, fino a poco prima, con la sua bella pubblicità in bianco e nero, ha finito per mostrarmi, a furia di guardarci dentro, il doppio sogno di una donna di mezza età, la fama e il successo, da una parte, una famiglia, un bambino, dall’altra.
Quando ho tolto l’occhio dal mirino e mi sono girato ho visto soltanto una donna trasandata, agghindata alla bell’e meglio per la passeggiata domenicale, che, in quella mattina d’inverno fredda ma soleggiata, aspirava nervosamente da una sigaretta. Sola. Era scomparso tutto, attorno a lei il vuoto, i suoi pensieri nascosti dal fumo.
Dite quello che volete, ditemi che sono pazzo, ma secondo me questo filtro funziona.


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venerdì 26 febbraio 2010

Inventario delle foto mai nate

La prima che ricordo è la meno interessante. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare, come si suol dire, e anche nell’arte dello sbaglio c’è sempre tempo per migliorare.
Sono alla Saline di Marsala, su un molo dello Stagnone. Qualcuno fa kitesurf, andando avanti e indietro su quelle acque basse.
Lo vedo venire verso di me, in lontananza. Lo aspetto, ho tutto il tempo di prepararmi. Lui arriva, mi vede, e civettuolmente fa un salto proprio davanti a me per virare in aria. È così vicino che col 35 mm posso quasi riempire il fotogramma. A riempirsi, in realtà, e solo per un attimo, è il mirino.
Rimango infatti col dito a metà corsa sul grilletto. E, non so per quale motivo, non scatto. Mi alzo scuotendo la testa, già pentito di non averlo fatto. Cosa ci potevo perdere, uno stupido frammento di pellicola?
Guardo il surfer allontanarsi veloce, sospinto dal vento. Magari convinto, in cuor suo, di essere stato immortalato proprio mentre compiva la sua bella virata in volo.
Lisa mi guarda, mi dice aspettiamo che rifaccia il giro, aspettiamo che ritorni, ma io continuo a scuotere la testa. So che in ogni caso, anche se ritornasse davvero, la situazione non sarebbe più la stessa.
No, non fa niente. Andiamo.

Un’altra è allo stadio. Il derby sta per finire, e l’atmosfera è sempre più calda. Molti tifosi si avvicinano alla rete di protezione del campo di gioco. Io mi sposto lateralmente, in basso. Intuisco cosa accadrà e salgo su una ringhiera, per appoggiarmi alla parte alta della rete. Due tifosi infatti si arrampicano, come per scavalcare, e io per un attimo li ho lì davanti, disposti perfettamente in controluce, con la rete a farmi da linea portante in diagonale, gli altri tifosi a completare il fotogramma.
È l’ultimo scatto della pellicola, e non ne ho più con me. Tant'è che non scatto e rimango con quello che - sono sicuro - sarebbe stato uno scattone solo per un istante davanti agli occhi, filtrato da ottica e mirino. E adesso dalla memoria.
Una foto buona la porto a casa comunque. Ma potevano essere due. E quella non fatta mi mancherà sempre.
Poi tutto finisce, e faccio una banalissima e stupidissima panoramica della tribuna, foto inutile, vista e rivista mille volte. Che oltretutto, tra le tendine rotte della malandata macchina che ho in prestito e i contrasti esasperati del cross processing, poco adatti all’esposizione ballerina della fotocamera, viene pure male. Ben mi sta, così imparo, cazzone che non sono altro.

Si potrebbe pensare che col digitale, e la non dipendenza dai rulli di pellicola, sarà diverso. E si preferirà uno scatto (dieci, venti, cento...) in più piuttosto che uno non fatto. Stronzate!

Sono a Palazzo Adriano, dove è stato girato Nuovo Cinema Paradiso, per fare delle riprese a un piccolo concerto.
Un’amica mi dice se ho visto tutti quei vecchi, seduti in fila sulle sedie e appoggiati a un muro, che formano una linea sottile e monocroma (sono quasi tutti vestiti con pantaloni scuri e camicie bianche) che curva leggermente assecondando la forma irregolare della grande piazza.
Sì, li ho visti, come avrei potuto non notarli. Sono almeno un centinaio, e non esagero.
Gliel’hai fatta una foto?
Per un attimo immagino la foto che avrei voluto fare, la vedo con una precisione che neanche se l’avessi stampata 30X45 sotto gli occhi. È fatta con il massimo grandangolo, a 10 mm, la linea sottile, monocroma e leggermente curva formata dai vecchi divide il fotogramma in due parti.
Sicuramente ne avrei fatte tre versioni, una con la linea in mezzo, una con la linea sul terzo inferiore e un’altra sul terzo superiore della foto. Anche se, nella mia visione del 30X45 potenziale, istintivamente la linea è quasi in mezzo, leggermente spostata in basso. E la foto è pure, va a sapere perché, leggermente mossa. La fila dei vecchi, conseguentemente, non nitida. Forse per rendere la situazione ancora più astratta. O più semplicemente perché le foto riesco a sbagliarle anche con l'immaginazione.
No, non gliel’ho fatta, non ho avuto tempo.
Dio mio! Il tempo! Non avuto tempo! Che cazzone, che cazzone!
Mi mangio ancora le mani e le schede di memoria.

L’ultima che mi viene in mente, al momento, è una Lomo Action Sampler.
Sono in autostrada, semivuota, tra un sorpasso e l’altro rifletto sulle vite che sfioro per un attimo a 130 all’ora, protetto e isolato dall’esterno dalla carrozzeria della macchina, dai vetri chiusi e dalla radio accesa che riempie l’abitacolo con musica e parole.
Ad un tratto vedo un aereo che viaggia in direzione opposta alla mia, finalmente lo incrocio alla distanza giusta. Ci provo da un sacco a beccarne uno con la Lomo quando sono in autostrada, e ho anche un paio di scatti che non sono del tutto malaccio. Vola alla mia sinistra, come se percorresse la carreggiata opposta, e per un attimo passa davanti al sole.
Non ho la macchinetta sotto mano - mai che ci sia quando serve davvero - e, ruotando la testa per seguirne il movimento, faccio mentalmente click. Uno, due tre, quattro, sento il rumore caratteristico dei 4 scatti in sequenza dell’Action Sampler.
Durante lo scatto potenziale, faccio in tempo a chiedermi se sarebbe stato meglio scattare tenendo ferma la macchinetta, facendo quindi uscire l’aereo dal fotogramma, oppure seguendolo in panning, cercando di fermarlo al centro dell’inquadratura e lasciando all’entrata e uscita di campo del sole il compito di rendere il senso del movimento.

Penso alla migliaia di foto inutili che occupano spazio nei miei hard-disk, e che sono incapace di cancellare. Foto dall’elettroencefalogramma piatto, che solo le macchine tengono in vita, semplici sequenze di 0 e di 1 prive di significato, ma per le quali non riesco a decidermi per l’eutanasia. Non si sa mai, mi dico sempre, col dito di Damocle che incombe, immobile e minaccioso, sopra il tasto Canc. Metti che debba fare una ricerca, un “fotometraggio”, o debba scrivere uno strambo racconto intitolato Eutanasia di una foto.
Il mio amico Buk dice che le foto brutte andrebbero cancellate subito, perché c’è il rischio che inquinino quelle buone, a furia di starci vicine. Il mio amico Buk dice anche che le foto non andrebbero mai cancellate, neanche quelle che ci sembrano brutte. Dopo un anno lo sguardo può cambiare, così come i criteri estetico-espressivi e quindi di selezione.
Penso che anche se farò buone foto, in futuro, e la cosa è dubbia, queste non nate mi mancheranno sempre. Anche se deciderò di cancellare, come dice Buk, o di tenere tutto, come dice Buk.
No, ovviamente oggi niente fotina d’accompagnamento. Non ora, perlomeno. Non qui.
Ma nulla ci vieta di sbagliare da professionisti.

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martedì 16 febbraio 2010

Tra-ghetti

Faccio per scendere e lo vedo dietro il vetro. Apre la porta di comunicazione tra i due vagoni, intercetto per un attimo il suo sguardo rapido e sfuggente, quindi passa oltre sfiorandomi con lo zaino viola che trascina su una spalla.
Inizia ad aprire le porte dei vari scompartimenti, guardando nervosamente all’interno. Intuisco immediatamente perché sia lì, ma mi sforzo di non crederci. Magari sta cercando dei compagni di viaggio, chi lo sa.
Arriva all’ultimo scompartimento, e finalmente entra e si siede. Io rimango a guardarlo, proprio alla fine del corridoio, con un occhio a lui e uno alla porta. E, attraverso di essa, alle scale che portano sul ponte del traghetto.
Comincia ad entrare ed uscire dal suo scompartimento, ma io ormai non mi muovo, anche se ho un bisogno disperato di un caffè, la notte non ho dormito, sono in giro da prima delle 5 e penso alle altre dieci ore di treno che mi aspettano.
Ho un bisogno disperato di un caffè, non riesco a tenere gli occhi aperti, ma il vagone è semivuoto e non scendo, cazzo non scendo. Entro nello scompartimento e chiudo le tende che danno sul corridoio. Lo sento passare un paio di volte fuori, finché non rientra nel suo scompartimento. Sembra rinunciare. Silenzio.

Ed è lì che commetto l’errore, di presunzione. Quanto ci vorrà per arrivare su, prendere un caffè e scendere, due minuti? E lui dove può andare, se siamo in piena navigazione? E, poi, potrà mai capitare a me?
Il desiderio è troppo forte, prendo con me lo zaino con le cose più importanti e lascio il resto. Esco lentamente, cercando di non far rumore e chiudendo le tende del mio scompartimento. Sperando che il mio bluff regga qualche minuto, soltanto qualche minuto.

Salgo velocemente le scale ripide e strettissime che portano al ponte, una rampa, due, tre e sono fuori. Mi dirigo controvento all’ingresso del bar.
Che fortuna, è vuoto, penso. Ordino il caffè, e già che ci sono un cornetto confezionato, non si sa mai, nel pomeriggio potrebbe sempre venirmi fame, nonostante il bel panino al salame e formaggio che mi aspetta giù.

Prendo il caffè e gli occhi mi si sgranano come due popcorn, pop pop, di nuovo aperti. Ci voleva proprio, penso. Pago e sono di nuovo fuori, perfino a favore di vento. Mi ributto sulle scale, che mi sembrano ancora più strette e ripide della salita, risalgo sul vagone, e rientro nel mio scompartimento.
Un rapido sguardo, bene, c’è tutto. Sorrido soddisfatto, non riesco a trattenermi, ti ho fregato, coglione! Prendo il sacchetto che ho sul sedile di fronte per conservarci il cornetto, sposto le bottigliette d’acqua, il plumcake che mi ha dato Lisa… cazzo, e il panino dove l’ho messo? Era in un sacchettino a parte, ma sempre qui dentro, lo ricordo bene. Guardo e riguardo, sposto e risposto, niente, non c’è. Il panino preparato amorevolmente dalla mia mammina non c’è.

Trrr, trrr… trrr trrr…
- Pronto?
- Li’, il panino dove l’hai messo?
- Nel sacchetto con l’acqua, dentro un altro sacchettino… il profumo del salame si sentiva troppo. Risata. Poi: Perché?
- Sei sicura di averlo messo lì?
- Sì, ti dico di sì. C’era anche la mela.
- Ah, c’era pure la mela.
- Sì.
Silenzio.
- Si sono fregati il panino.
- Cosa?
Risata.
- Si sono fregati il panino.
Risata più forte.
Io rido molto meno. Ho fame. Una fame che ha avuto un’improvvisa impennata e mi ha fatto gorgogliare lo stomaco ora che so che il panino lo mangerà qualcun altro.
Esco dallo scompartimento e vado verso quello in fondo, con passo deciso.

La porta è aperta, ma la tendina è chiusa. Tutto al buio, ma lui è lì dentro, e si intravede bene. Scosto a malapena la tendina, sento forte l’odore del salame, lui non si volta, guarda dritto davanti a sé.
Pausa.
Buon appetito, scandisco mentalmente, e lo penso così forte che è come se lo avessi detto e se lui avesse sentito.
Torno indietro, perché mi viene in mente che non ho controllato il borsone. Mentre lui è ancora lì devo farlo immediatamente. Lo tiro giù in fretta, anche se non sembra minimamente toccato. Apro freneticamente le cerniere, sbaglio tasca e mi sembra che manchi qualcosa, ma in realtà c’è tutto. Perlomeno così mi sembra a caldo, può sempre sfuggirti qualcosa di cui poi noterai la mancanza soltanto quando ti servirà.
Motivo per cui ricontrollo tutto, e cerco di farlo il più velocemente e meticolosamente possibile. Niente, non manca niente. Eppure ho addosso quella strana sensazione di violazione, anche se alla fine si è preso solo panino e mela, per fame; non può nemmeno considerarsi furto, se avessi fame e non avessi soldi farei lo stesso, probabilmente.

Mi stravacco sul sedile, il sonno è definitivamente passato, e gli occhi mi vanno sul sedile di fronte. Accanto al sacchetto c’è il libro che stavo leggendo e, chissà perché, avevo lasciato in bella vista. Me lo ricordo bene, prima di scendere l’ho preso e l’ho messo lì bene in ordine accanto al sacchetto.
Il libro è Autoritratto di un reporter di Kapuściński. In copertina fa la sua bella apparizione la foto di un gruppo di ragazzi neri sorridenti. Più lo guardo più mi convinco che è quel libro ad avermi graziato, magari l’amico di colore affamato voleva fregarsi tutto, e invece si è preso solo panino e mela perché si è commosso di fronte a quella foto, o qualcosa del genere, o che so io.
O magari no, ha preso solo quello perché non è un ladro, e basta, cerca solo come rimediare qualcosa da mangiare e nella sua vita ha collezionato troppi rifiuti per chiedere. Tra l’altro, così facendo, mi ha pure privato del piacere di lavarmi un po’ la coscienza a basso costo e di sentirmi, per un momento, buono, regalandoglielo, quel maledetto panino.
Ma non lo saprò mai. Quando mi alzo per tornare verso di lui, scopro che non è più sul vagone. Ha approfittato del tempo che ho perso in inutili riflessioni per dileguarsi.

Torno al mio posto e, preventivamente, mangio il plumcake e bevo. A meno che non mangino vomito, questo non me lo fregano più, penso.
Mentre siamo fermi a Villa sento uno scampanellio in corridoio. Compro a caro prezzo un infimo panino (in realtà è un cornetto dolce) con prosciutto e formaggio e un succo di frutta, li ripongo per un attimo dentro al sacchetto, ma ricordando la teoria appena elaborata, decido di mangiarli subito.

Mentre addento quel cornetto freddo e dolciastro, noto un cartello pubblicitario fuori dal finestrino, lo collego al libro rimasto sul sedile di fronte – la fugace apparizione dell’“autorità” è puro culo –, afferro la macchina e decido di sintetizzare l’esperienza così:


lunedì 15 febbraio 2010

Avatar: E=3D²


Vedere Avatar equivale pressappoco a prendere una sbornia. L’eccitazione della sera prima, accompagnata da occhi pesanti e sensazione di vuoto alla testa, si trasforma in un terribile mal di testa il mattino dopo.

Alla fine sto benedetto 3D, per quanto eccitante anche per l’effetto novità (penso all’Arrivo del treno dei Fratelli Lumière, a agli spettatori che si alzano, come vuole la leggenda), non è altro che un passo tecnico in avanti come lo è stato il passaggio dal muto al sonoro e dal bianco e nero al colore. Sempre che trovino il modo di rendere il tutto meno faticoso, ovviamente.

Ci stanno lavorando, ne sono certo. Così come sono certo che la cosa non è semplice, o l’avrebbero già fatta, visti gli interessi in gioco. Il 3D è l’unico modo, attualmente, per cercare di riportare la gente al cinema, facendole pagare allegramente un biglietto, oltretutto. Fatto che, in tempi di full hd casalingo, home teather, e download selvaggio, non è per niente scontato. Soprattutto pagare.
Un tentativo affine all’invenzione del cinemascope, del panavision, insomma dei formati panoramici, per tentare di arginare la concorrenza della televisione, offrendo qualcosa di non riproducibile al di fuori del cinema.
Il bombardamento pubblicitario massiccio e continuo ne è la testimonianza. Così come il fatto che le sale 3D comincino ad essere più diffuse, anche in luoghi dove non pareva così scontato ci fossero.

Curioso come si stia cercando di farlo con una storia di impianto estremamente classico, seppure ibridata con soluzioni narrative e un immaginario visivo che ha molti debiti nei confronti del mondo dei videogiochi e della loro interattività.
Ci si arrampica per montagne volanti, e quando sembra di non poter più andare avanti, si aspetta che il movimento di “zolle” vicine finisca per mettere a portata di salto la liana giusta per passare al livello successivo; e si domina il “mostro” dalle sembianze di uno pterodattilo con una serie di tecniche estremamente familiari per chi ha una pur minima manualità con joystick e affini.

In fondo Avatar parla di noi spettatori, desiderosi di proiettarci dentro lo schermo immedesimandoci totalmente nel nostro beniamino di turno. Cosa che finora abbiamo tranquillamente fatto senza l’ausilio di bioporte, di code “trombatutto” e di capsule di controllo varie. E che prima facevamo senza il colore, senza il sonoro, e prima ancora senza immagini in movimento. Ma che ora devono convincerci a fare indossando un paio di strani occhialini.

Per sottolineare l’importanza dell’esperienza, l’”Io ti vedo” seppellisce definitivamente l’”Io ti amo”, così come a noi non resta che sprofondare tra le braccia accoglienti della Nostra Signora Madre Virtuale, per rinascere in un nuovo corpo e “vedere” con occhi nuovi.
Il mondo di Pandora è stato aperto e i nostri avatar stanno uscendo dallo schermo. O siamo noi che stiamo definitivamente entrando dentro il nuovo acquario.
Perlomeno fino ai titoli di coda.

mercoledì 10 febbraio 2010

Kiss


"La Città* è un tempio dove pilastri viventi
lasciano talvolta sfuggire confuse parole;
l'uomo vi passa lungo foreste di simboli,
che lo fissano con sguardi familiari."

C. Baudelaire, Corrispondenze
*Natura nell'originale

La città ci lusinga,
ci manda messaggi che sono soltanto nella nostra testa.
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lunedì 11 gennaio 2010